
15 Giu Adolescenti Anoressiche Ospedalizzate
Adolescenti Anoressiche Ospedalizzate e il contributo dell’Arteterapia Individuale per facilitare un’Alleanza Terapeutica.
L’uso della visualizzazione simbolica e della contemplazione inter-soggettiva durante il primo incontro.
di Annamaria Del Curatolo, Sandra Maestro e Paola Luzzatto
Introduzione
Il tema della “barriera comunicativa” e del rifiuto a collaborare con il Team medico, è ben noto, fin dai primi studi sull’anoressia nervosa, come ha evidenziato Hilde Bruch nel suo libro “La Prigione Dorata” del 1978. Le due forme di terapia considerate più efficaci ed applicate nei maggiori centri ospedalieri sono attualmente la Psicoterapia Comportamentale-Cognitiva (CBT) e la Terapia Familiare (FT). Nonostante questo, è stato notato che la proporzione delle pazienti che rifiutano la terapia o che la interrompono è ancora troppo alta, e sono state incoraggiate terapie innovative (Watson e Bulik 2013). Anche Faiburn, il fautore della CBT, ha sentito la necessità di elaborare un nuovo approccio, chiamato “CBT-Enhanced” (Fairburn et al. 2013) in cui una maggiore attenzione viene diretta alle “barriere al cambiamento” prima di impegnarsi a livello cognitivo-comportamentale nel cambiamento stesso.
L’arteterapia è una disciplina che include tra i suoi principali strumenti terapeutici la visualizzazione del mondo interno e le riflessioni che ne possono seguire. Si può ipotizzare che la visualizzazione della barriera che ostacola il cambiamento possa essere particolarmente utile sia a rispondere al bisogno della paziente di sentirsi capita che a stimolare le sue capacità riflessive.
L’arteterapia ha cominciato ad essere usata nelle terapie dei Disturbi Alimentari e in particolare con adolescenti anoressiche, in UK negli anni ‘90 (Levens 1990; Rust 1992; Dokter ed. 1994; Luzzatto 1994; Shaverien 1994; Wood 1996), e più recentemente in altri paesi, come USA, Israele, Canada (Makin 2000; Rabin 2003; Rehavia-Hanauer 2003; Hinz 2006; Brooke 2008). Alcuni elementi del processo arte-terapeutico sono stati messi in rilievo, come la capacità delle immagini di contenere ed elaborare la forte ambivalenza che caratterizza queste pazienti (Levens 1990); l’importanza del rapporto con il materiale artistico, che diventa un “oggetto transizionale” (Shaverien 1994); l’immagine della “doppia trappola” della paziente anoressica, che non esce dalla sua prigione perché all’esterno vi è un ulteriore pericolo da evitare (Luzzatto 1994). Sul piano della evidenza però non vi sono ancora studi che dimostrino l’efficacia dell’arteterapia nel campo della anoressia nervosa: i numeri sono piccoli e gli interventi sono svariati, spesso non descritti in dettaglio e difficilmente ripetibili.
Metodologia
Questo articolo presenta una descrizione della interazione paziente-terapeuta nella “prima seduta” di arteterapia individuale. Le sedute sono state condotte con cinque adolescenti anoressiche ricoverate in una Clinica per Disturbi Alimentari (Stella Maris, Pisa). La direttrice del programma per adolescenti (S.M., psichiatra e psicoanalista) ha inserito A.D. (a quel tempo tirocinante di formazione in arteterapia) nell’Equipe inter-disciplinare, con l’obiettivo di facilitare l’adesione delle pazienti al programma della Clinica. P.L., docente del corso di formazione in arteterapia, ha offerto regolare supervisione. La stanza era fornita di un tavolo, due seggiole e un armadio per i materiali. I materiali a disposizione sul tavolo erano carta bianca e carta colorata, con matite, pastelli e tempere. L’intervento è stato focalizzata sull’uso dei due strumenti dell’arteterapia spesso citati come gli elementi essenziali: la visualizzazione simbolica dello stato d’animo e la contemplazione inter-soggettiva dell’immagine” (Markmann 2011).
La visualizzazione dello stato d’animo è stata facilitata in vari modi: talvolta la paziente ha parlato spontaneamente di sé, e le sue parole hanno portato all’immagine; altre volte la visualizzazione è stata stimolata da una domanda del tipo “come ti senti ora”; altre volte è stato incoraggiato l’uso libero dei materiali, come lo scarabocchio, che porta ad una immagine (Winnicott 1971). La contemplazione inter-soggettiva dell’immagine è stata caratterizzata dai seguenti elementi: 1) il distanziamento spaziale dell’immagine, che veniva attaccata sulla parete a uguale distanza dalla paziente e dall’arte terapeuta; 2) un uso prolungato del silenzio, nel tempo dedicato al guardare insieme l’immagine; 3) una intensificazione della inter-soggettività, attraverso il dialogo sull’immagine.
Illustrazione di tre casi
Tutte le pazienti hanno fatto durante la prima seduta un’immagine che hanno poi riconosciuto come una metafora visiva del loro stato mentale di forte disagio, ma anche – soprattutto – hanno espresso la convinzione che “nulla poteva cambiare”, non solo nella vita, ma neanche nell’immagine. La prima seduta ha instaurato una alleanza terapeutica, basata su tre fattori:
- le pazienti hanno accettato di continuare gli incontri di arteterapia durante il periodo di ospedalizzazione (tra 4 e 8 sedute);
- nelle sedute successive hanno fatto una o più immagini simili a quella della prima seduta, ma questa volta aperte al cambiamento;
- dalla seconda seduta in poi hanno collegato il livello metaforico con il livello di vita reale, condividendo varie situazioni di vita e stati d’animo.
In questo articolo riportiamo alcuni frammenti del diario clinico di A.D. nel caso di tre pazienti, includendo sia la metafora “rigida”, chiusa al cambiamento fatta durante la prima seduta, che la descrizione di alcune metafore più “flessibili”, fatte nelle sedute successive. I nomi usati per le pazienti non corrispondono ai nomi reali.
1. Ada, 17 anni.
La prima immagine: Il tunnel senza via d’uscita.
Titolo: “Il Nulla”
“Quando Ada si siede le chiedo come sta. Mi dice che è triste ed angosciata. Dice che si sente “vuota”. L’espressione del suo viso è spenta. Riusciamo ad instaurare un contatto attraverso lo sguardo. Le chiedo se può fare un’immagine di questo vuoto di cui mi ha parlato. Rimane per un po’ in silenzio, poi prende il pastello nero, e inizia a disegnare un tunnel. Usa il pastello con vigore, ma lentamente. Mentre disegna, è concentrata e tesa. Quando ha finito scrive il titolo: “Il nulla”. Poi aggiunge altre parole. Scrive ‒ sempre con pastello nero ‒ la parola “Entrata” con una freccia che indica l’ingresso e, dall’altra parte del tunnel, la frase: “Senza via di uscita”.
Guarda il disegno finito. Le chiedo se lei è nel disegno. Ada dice “Io sono lì dentro”. Le chiedo che cosa si prova a stare lì dentro. Ada spiega: “Sento il nulla dentro di me, mi sembra di non provare nessuna emozione”. Commento che però all’inizio della seduta aveva detto che era triste e angosciata. Guardiamo insieme il tunnel scuro. Le chiedo in che punto del tunnel si trova. Lei dice: “Mi trovo al centro… è molto buio… mi sento confusa perché vedo tutto nero”. Le chiedo se posso stare un poco lì dentro insieme a lei. Mi guarda un poco sorpresa, poi annuisce. Cade il silenzio, Ada torna a contemplare l’immagine del tunnel e ogni tanto si volta verso di me, come per vedere se ci sono ancora. Guardiamo l’immagine insieme in silenzio, a lungo, fino alla fine della seduta. Ada sorride quando esce”.
Dopo la prima seduta. In una delle sedute successive Ada inizia con uno scarabocchio ed emerge la figura di un drago rosso. Le chiedo se vuole scrivere una favola su quel drago. Ada scrive e poi legge forte la sua favola: “C’era una volta un drago che abitava in una grotta buia ‒ come il tunnel… ‒ non usciva mai e non sapeva come era il mondo fuori. Un giorno, incuriosito da rumori di gente che giocava nel prato fuori, decise di uscire. Conobbe tante persone, così non si sentì più tanto solo”. Quando legge la storia, le chiedo perché il drago non voleva uscire. Ada risponde che “il drago aveva paura di uscire perché temeva di non essere accettato e apprezzato… Ma quando sentì le voci fuori si rese conto che c’erano persone con cui gli sarebbe piaciuto stare”.
Ada viene dimessa poco tempo dopo, poiché ha ripreso a mangiare regolarmente ed ha preso un peso accettabile. Verrà seguita dai servizi territoriali, insieme ai suoi genitori che hanno iniziato entrambi un percorso di psicoterapia.
2. Bice, 15 anni.
La prima immagine: Il punto interrogativo nel bidone della spazzatura.
Titolo: “Da buttare”.
“Bice appare intimorita, però mi guarda negli occhi. Le chiedo come mai si trova qui. Mi dice che è venuta qui per sua scelta, ma è stata indirizzata dalla sua pediatra poiché prima mangiava troppo, poi pian piano ha deciso di ridurre il cibo, fino a non mangiare più. Da quando è qui sta male… ma anche bene… perché si sente protetta.
Le chiedo se può fare un’immagine di come si sente ora. Bice disegna un punto interrogativo molto colorato dentro a un contenitore. Intorno disegna alcune forme geometriche di colori diversi. Intitola il disegno “Da buttare”.
Mentre guardiamo l’immagine, chiedo a Bice di raccontare quello che vede. Lei dice: “Il punto interrogativo… sono io. Sono un oggetto da buttare nel bidone della spazzatura, non c’è niente di positivo in me che valga la pena mantenere. Le figure geometriche sono gli altri: sono più sicuri e più definiti di me. Loro sanno chi sono, mentre io non lo so. Io mi sento confusa. Non riesco a mettere insieme i miei pensieri”. Commento che forse il punto interrogativo vorrebbe essere da qualche altra parte… Dice “Il punto interrogativo è fatto così, ha dentro tanti pensieri negativi che non può cambiare. Sta lì e non può uscire dalla sua prigione”. Continuiamo a guardare il disegno. Io dico che il punto interrogativo però ha delle linee ben definite, è bello e colorato, e si nota molto, anche se è dentro ad un cestino… Bice rimane in silenzio, mi guarda e poi riguarda l’immagine e dice: “Forse il punto interrogativo sta dentro quel cestino perché ora ci vuole stare”. Commento che… forse si sente protetto? Bice annuisce, ma non elabora.
Dopo la prima seduta. Nella terza seduta Bice fa un collage ed emerge il tema del padre. Non ricorda nulla di lui, guarda sempre le sue foto, ma non può avere altro. È curiosa di sapere com’è. Nello stesso tempo non sente il bisogno di conoscerlo: ha paura di deluderlo. M dice: “Questa situazione è per me come un punto interrogativo che non ha mai avuto una risposta”. Nella quarta seduta Bice fa l’immagine di un vaso in stile cinese che intitola “Bello e vuoto”, ci mette molto a colorarlo con le matite colorate. Le chiedo se vuole fare scrittura creativa. Potrebbe immaginare di essere quel vaso. Bice scrive: “Sono un vaso morbido e
tondeggiante, dipinto con colori vivaci. Sono nato per abbellire soggiorni luminosi e contenere fiori bellissimi e invece, dopo aver fatto un lungo viaggio sono finito sull’alto di una mensola, ignorato e inutilizzato e non ho mai potuto accogliere fiori. Prima ero un vaso speranzoso e soddisfatto. Ora i miei colori mi sembrano smorti e non mi stupisco che nessuno sollevi lo sguardo e mi noti”. Le chiedo se ora vuole modificare qualcosa nell’immagine, o nella storia del vaso. Bice, dopo un lungo silenzio, dice… “Sì, voglio mettere acqua pura all’interno di quel vaso. L’acqua è sorgente di energia e vita. Ecco… (Mi fa capire che ha immaginato il vaso pieno). Ora il vaso mi sembra di nuovo utile!”
Bice viene dimessa perché ha accettato il piano terapeutico, ha acquistato peso ed è fuori pericolo. Verrà seguita dai servizi territoriali della sua città.
3. Clara, 16 anni.
La prima immagine: Il cuore nascosto dietro la roccia.
Titolo: “La mia rabbia”.
“Carla si siede, ma sembra ansiosa e preoccupata. Dice subito che non sa disegnare. Dice che sta male e vuole uscire da qui. Piange. Racconta che quest’estate nella sua
città, mentre faceva una passeggiata con le amiche è stata molestata da un ragazzo. Ai suoi l’ha detto solo dopo mesi perché non se la sentiva. L’ascolto in silenzio. Aggiunge che si sente angosciata. Le chiedo se può fare una immagine di come si sente ora. Carla prende le matite, disegna una roccia e dietro la roccia disegna un cuore rosso e nero.
La intitola “la mia rabbia”.
Dice che è molto arrabbiata di dover rimanere qui. Vuole tornare a casa per stare con il padre. Ha paura di perdere il suo affetto, ora che i suoi fratelli sono da soli con lui. Guardiamo la sua immagine. Dico che il cuore si sta nascondendo…. Carla riflette un po’, poi spiega: “Quel cuore si nasconde dietro la roccia perché non vuole far vedere agli altri quello che prova”. Dopo una riflessione, aggiunge “…Forse dovrebbe vincere la paura”. Annuisco, ma senza fare commenti”.
Dopo la prima seduta. Carla dice che vuole fare l’immagine di un evento familiare. L’immagine è disegnata a lapis a tratto leggero. Carla dice che rappresenta i suoi genitori e la sorella piccola vicini seduti al tavolo della cucina. Lei è lontano da loro, in piedi davanti alla soglia della porta. Carla spiega che quando sua sorella torna dalla scuola e racconta la sua giornata tutti le sono intorno; invece quando racconta lei, non viene considerata, e si sente insignificante. Guardiamo l’immagine in silenzio. Carla dice: “Mi nascondo… come il cuore dietro alla roccia!” Poi aggiunge: Vorrei vincere la paura e parlarne con loro”. Che cosa direbbe ai suoi genitori? “Che mi ascoltino di più”. Le chiedo se può fare un’immagine di come vorrebbe che fosse la situazione. Carla disegna sempre al lapis gli stessi personaggi della scena precedente ma questa volta sono seduti tutti insieme intorno al tavolo e sono sorridenti. Guardiamo in silenzio le due immagini vicine. Riflette, e dopo un po’ dice che la seconda immagine le piace molto: “Lì mi sento serena e accettata!”
Viene dimessa nel giro di poche settimane, perché rispetta una dieta equilibrata e si dimostra molto collaborativa.
Riflessioni
1. Si può notare una differenza sostanziale tra il modo in cui le adolescenti hanno iniziato la seduta (attraverso un atteggiamento chiuso o oppositivo: il silenzio, il pianto, il dichiarato desiderio di tornare a casa) e il proseguire dell’interazione quando a loro è stata offerta la possibilità di usare materiali artistici per esprimere il loro stato d’animo. A questo punto infatti sono state capaci di calmarsi, di concentrarsi, e di esprimersi attraverso immagini simboliche. Si può ipotizzare che queste pazienti usino in genere il linguaggio del corpo invece del linguaggio verbale, per comunicare il loro disagio. L’uso dei materiali, delle immagini e
delle metafore, è una modalità intermedia, tra il corpo e le parole, forse più appropriata a queste pazienti.
2. Dall’analisi delle metafore emerse nelle prime sedute, si notano alcuni temi ricorrenti:
a) “forti emozioni negative”: una grande solitudine in primo piano, unita a rabbia, paura e confusione;
b) il tema del sentirsi “non viste”: talvolta causato da altri (essere non ascoltate, dimenticate, abbandonate), altre volte volontario (non relazionarsi, nascondersi);
c) la sensazione di sentirsi “bloccate”, imprigionate, incapaci di modificare la situazione o lo stato d’animo. Tra questi tre elementi si crea facilmente un circolo vizioso, in quanto la solitudine porta a un sentimento di rabbia (verso le persone a cui desiderano essere vicine), la rabbia crea paura e confusione e desiderio di nascondersi, che a sua volta aumenta la solitudine, e così via. Il senso di blocco potrebbe essere collegato alla
forte ambivalenza tra solitudine e rabbia, che si inseguono a vicenda e si mescolano come in un vortice: in arteterapia le immagini possono venire separate e si può lavorare sulle due emozioni separatamente.
3. Anche se non è mai possibile stabilire con esattezza quale sia il contributo di una singola disciplina, in un trattamento inter- disciplinare (come viene condotto nei centri attualmente più avanzati) questa esperienza suggerisce che la modalità dell’arteterapia abbia il potenziale di interrompere il circolo vizioso descritto qui sopra. Questo può avvenire nel caso delle adolescenti anoressiche in vari modi: a) attraverso il sentirsi vista,
ascoltata e accettata, nonostante il desiderio di nascondersi (es. lasciare che l’arte terapeuta entri nel tunnel della sua solitudine); b) attraverso connessioni fatte dalla paziente tra il livello metaforico e il livello reale (es. il punto interrogativo e l’assenza del padre); c) attraverso la creazione da parte della paziente di metafore meno rigide e più flessibili (es. il bel vaso cinese vuoto e inutile può essere riempito di acqua limpida ed
utile);
d) attraverso riflessioni spontanee suscitate dalla immagine (es. il bisogno del cuore di nascondersi dietro alla roccia ha messo in discussione il bisogno stesso di nascondersi);
e) attraverso il dinamismo dell’immagine, che porta per sua natura al cambiamento (il drago che esce dalla grotta, la ragazza in cucina che si siede al tavolo con i genitori).
4. Tra i benefici che l’arteterapia può apportare in un setting clinico ospedaliero non bisogna dimenticare che la condivisione delle immagini delle pazienti nelle riunioni dell’Equipe può aumentare la capacità di “reverie” e la consapevolezza del mondo interno di queste pazienti, da parte degli altri professionisti, spesso abituati ad un livello di lavoro cognitivo e comportamentale (Hindmarch 2000).
In conclusione, questa esperienza ci ha mostrato come sia possibile per l’arte terapeuta stabilire una forma di alleanza con la paziente adolescente anoressica già alla prima seduta. La metodologia qui usata include l’invito a visualizzare simbolicamente lo stato d’animo del “qui-ed-ora”, e una risposta all’immagine che “contempla” insieme alla paziente la sua convinzione che nessun cambiamento sia possibile. Nelle sedute successive, la prima immagine è diventata un elemento di riflessione per la paziente, che ha poi elaborato metafore più flessibili ed aperte al cambiamento. Si auspica un inserimento strutturato di incontri di arteterapia individuale nelle istituzioni ospedaliere, che permetterebbe una più ampia casistica e uno studio rigoroso sulla efficacia dell’arteterapia in questa popolazione.
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