21 Mar “..Caro muro ti scrivo..” Fra dentro e fuori la..180”
“Scatti…” a cura di Claudia Papini
Abstract
In questo articolo viene affrontato un numero.180.
180 è la legge del 13 Maggio 1978 “ Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, detta legge Basaglia grazie alla quale si impose la chiusura dei manicomi.
180 è anche la lunghezza del muro del manicomio di Volterra in cui Oreste Ferdinando Nannetti, astronautico, ingegnere minerario ovvero n.o.f. 4, come lui stesso si descrive, ha inciso con la fibbia del panciotto nei lunghi anni di detenzione.
Un libro di pietra costruito tracciando prima i contorni delle pagine e riempiendole poi di segni “10% deceduti per percosse magnetico-catodiche, 40% per malattie trasmesse, 50% per odio, mancanza di amore e affetto”.
Così N.O.F descriveva il suo mondo. Una realtà fatta di pianeti ed elementi chimici, di eventi del mondo e di guerre, di città, disegni, schemi, numeri e nomi.
Sono una materia vivente le immagini, hanno una temperatura e possono morire anche due volte. “N.O.F”
180 non è un peso né una misura,
180 non è un numero né un’altezza.
180 è una Legge e un Muro.
Con 180 si intende la legge italiana numero 180 del 13 maggio 1978, “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” detta anche Legge Basaglia ed è la prima ed unica legge quadro che impose la chiusura dei manicomi che regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. (fonte: www.legge180.it)
Basaglia applica un moderno metodo terapeutico consistente nel non considerare più il malato mentale alla stregua di un individuo pericoloso, ma al contrario un essere del quale devono essere sottolineate, anziché represse, le qualità umane.
Il malato è di conseguenza in continui rapporti con il mondo esterno, in quanto gli è permesso di dedicarsi al lavoro e al mantenimento dei rapporti umani.
(fonte: www.francobasaglia.it)
«L’irrecuperabilità del malato è spesso implicita nella natura del luogo che lo ospita. Ma questa natura non dipende direttamente dalla malattia: la recuperabilità ha un prezzo, spesso molto alto, ed è quindi un fatto economico-sociale più che tecnico-scientifico.»
(Basaglia, in Morire di classe, 1969)
180 metri di muri esterni della Casa Psichiatrica in cui Oreste Ferdinando Nannetti, astronautico, ingegnere minerario ovvero n.o.f. 4, come lui stesso si descrive, ha inciso con la fibbia del panciotto nei lunghi anni di detenzione.
«Il corpo perché sia vissuto è dunque nella relazione di una particolare distanza dagli altri, distanza che può essere annullata o aumentata a seconda della nostra capacità di opporsi. Noi desideriamo che il nostro corpo sia rispettato; tracciamo dei limiti che corrispondono alle nostre esigenze, costruiamo un’abitazione al nostro corpo.»
(Basaglia, in Corpo, sguardo e silenzio, 1965)
In un opera enciclopedica della sua vita, N.O.F. esprime il suo tentativo di collocarsi nel mondo.
Per tutto il perimetro del padiglione (180 metri) e per un’altezza di circa due metri N.O.F.4 (il 4 sta per quarto padiglione del manicomio di Volterra) non si fermava e continuava il suo graffito anche dietro le panchine, delimitando la forma delle teste di chi ci stava seduto. Descriveva il suo mondo. Una realtà fatta di pianeti ed elementi chimici, di eventi del mondo e di guerre, di città, disegni, schemi, numeri e nomi.
«Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale (risultato della malattia che Burton chiama “institutional neurosis” e che chiamerei semplicemente istituzionalizzazione); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento. L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo.»
(Basaglia, in La distruzione dell’ospedale psichiatrico, 1964)
Un libro di pietra costruito tracciando prima i contorni delle pagine e riempiendole poi di segni: “10% deceduti per percosse magnetico-catodiche, 40% per malattie trasmesse, 50% per odio, mancanza di amore e affetto”.
Nannetti scriveva di se stesso sulle pareti: «Nato a Roma, Italia, ore 23.40, rione Sant´Anna, moro, secco, spinaceo, alto un metro e 65, naso a y, secco, bocca stretta di materialista e spiritualista (…) Come una stella libera sogno e tutto il mondo è mio». E ancora: «I fantasmi sono formidabili dopo la seconda apparizione (/) le ombre sono vive sotto cosmo.»
(N.O.F. 4 Il Libro della Vita Ed. del Cerro – a cura di M. Trafeli -1985)
Oreste Fernando Nannetti (N.O.F) nacque a Roma il 31 dicembre 1927 da Concetta Nannetti e da padre ignoto. Frequentò le elementari in un istituto privato. All’età di sette anni fu accolto in un Istituto di Carità. Tre anni dopo passò in una struttura per minorati psichici. In seguito, trascorse un lungo periodo all’ospedale Forlanini a Roma.
Notizie certe delle sua vita si hanno a partire dal 1948, quando fu accusato di oltraggio a pubblico ufficiale.
Nel 1958 fu trasferito dall’Ospedale Psichiatrico di Santa Maria della Pietà di Roma a quello di Volterra, dove l’anno successivo passò alla sezione giudiziaria Ferri, per scontare una condanna di due anni.
Nel 1961 fu trasferito alla sezione civile Charcot, per poi tornare, tra il 1967 e il 1968, all’ex giudiziario Ferri, fino al suo trasferimento per dimissione all’Istituto Bianchi sempre all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Volterra nel dicembre del 1973. (N.O.F. 4 Il Libro della Vita Ed. del Cerro – a cura di M. Trafeli -1985)
Volterra, ex centro di igiene mentale, al San Girolamo le regole parlavano chiaro: Non ci devono essere contatti tra gli infermieri e i genitori dei pazienti, tra i “matti” e i genitori dei matti. Non devono uscire o entrare oggetti, lettere, stampe…
«Una favola orientale racconta di un uomo cui strisciò in bocca, mentre dormiva, un serpente. Il serpente gli scivolò nello stomaco e vi si stabilì e di là impose all’uomo la sua volontà, così da privarlo della libertà. L’uomo era alla mercé del serpente: non apparteneva più a se stesso. Finché un mattino l’uomo sentì che il serpente se n’era andato e lui era di nuovo libero. Ma allora si accorse di non saper cosa fare della sua libertà: “nel lungo periodo del dominio assoluto del serpente egli si era talmente abituato a sottomettere la sua propria volontà alla volontà di questo, i suoi propri desideri ai desideri di questo, i suoi propri impulsi agli impulsi di questo che aveva perso la capacità di desiderare, di tendere a qualcosa, di agire autonomamente. In luogo della libertà aveva trovato il vuoto, perché la sua nuova essenza acquistata nella cattività se ne era andata insieme col serpente, e a lui non restava che riconquistare a poco a poco il precedente contenuto umano della sua vita”.
L’analogia di questa favola con la condizione istituzionale del malato mentale è addirittura sorprendente, dato che sembra la parabola fantastica dell’incorporazione da parte del malato di un nemico che lo distrugge, con gli stessi atti di prevaricazione e di forza con cui l’uomo della favola è stato dominato e distrutto dal serpente. Il malato, che già soffre di una perdita di libertà quale può essere interpretata la malattia, si trova costretto ad aderire ad un nuovo corpo che è quello dell’istituzione, negando ogni desiderio, ogni azione, ogni aspirazione autonoma che lo farebbero sentire ancora vivo e ancora se stesso. Egli diventa un corpo vissuto nell’istituzione, per l’istituzione, tanto da essere considerato come parte integrante delle sue stesse strutture fisiche.»
( Basaglia,in Corpo e istituzione, 1967)
Lettera di una paziente ricoverata al manicomio di Volterra:
Caro Giovanni
ora capisco credo mi abbiano portato qui per votare.
Sono stufa di stare in giro per gli ospedali. Ho deciso di sposarmi presto.
Vieni dunque a prendermi essendo molto seccata di essere presa in giro.
In attesa ti saluto caramente.
Se hai preso tu le mie fotografie tienile sì, non per guardarmi ma per amarmi
con affetto Fiorella s.
Padiglione “lombroso”
Volterra
(Corrispondenza negata. Epistolario della nave dei folli” Ed.Pacini-2008-O.C.)
Aldo Trafeli, l’infermiere che ha passato più di 30 anni nel manicomio di Volterra, ha detto: «Dopo tanti anni, non saprei ancora dire chi è il matto, mi guardo intorno e penso sempre che bisogna vedere da che parte si chiude il cancello». (N.O.F. 4 Il Libro della Vita Ed. del Cerro – a cura di M. Trafeli -1985)
Nel corso degli anni l’opera di Nannetti è diventata un esempio magistrale di art brut, definizione data dal pittore francese Jean Dubuffet nel 1945. Infatti, la collection de l’art brut di Losanna, ha preso i calchi dei suoi graffiti.
Per Art Brut (arte grezza), si intende l’espressione artistica delle persone alienate, di malati mentali, persone che avevano per lo più subìto grossi traumi nella vita ma che non avevano alcuna nozione accademica, artistica, estetica dell’arte stessa.
L’Art brut, dunque, raccoglie la produzione artistica realizzata da non professionisti o pensionanti dell’ospedale psichiatrico che operano al di fuori delle norme estetiche convenzionali (autodidatti, psicotici, prigionieri, persone completamente digiune di cultura artistica). Dubuffet intendeva, in tal modo, definire un’arte spontanea, senza pretese culturali e senza alcuna riflessione.
L’arte grezza designa “lavori effettuati da persone indenni di cultura artistica, nelle quali il mimetismo, contrariamente a ciò che avviene negli intellettuali, abbia poca o niente parte, in modo che i loro autori traggano tutto (argomenti, scelta dei materiali messa in opera, mezzi di trasposizione, ritmo, modi di scritture, ecc.) dal loro profondo e non stereotipi dell’arte classica o dell’arte di moda…”
Ed ancora: “Quei lavori creati dalla solitudine e da impulsi creativi puri ed autentici – dove le preoccupazioni della concorrenza, l’acclamazione e la promozione sociale non interferiscono – sono, proprio a causa di questo, più preziosi delle produzioni dei professionisti…”
“La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia.”
Franco Basaglia
«Per poter veramente affrontare la “malattia”, dovremmo poterla incontrare fuori dalle istituzioni, intendendo con ciò non soltanto fuori dall’istituzione psichiatrica, ma fuori da ogni altra istituzione la cui funzione è quella di etichettare, codificare e fissare in ruoli congelati coloro che vi appartengono. Ma esiste veramente un fuori sul quale e dal quale si possa agire prima che le istituzioni ci distruggano?»
(Basaglia, in Il problema della gestione, 1968)
Approfondimenti:
Caro muro ti scrivo (articolo pubblicato sull’Espresso,14 settembre 1986, da Antonio Tabucchi.
Documentario: L’osservatorio nucleare del signor Nanof (prodotto da Studio Azzurro con la regia di Paolo Rosa)
Documentario: I graffiti della mente (di Erika e Piernello Manoni)
SCENE DA UN MANICOMIO – Storia e storie del Santa Maria della Pietà (di Bruno Tagliacozzi, Adriano Pallotta)
Claudia Papini
Fotografa di scena.
Bibliografia
N.O.F. 4 Il Libro della Vita (Ed. del Cerro – a cura di M. Trafeli)
Corrispondenza negata. Epistolario della nave dei folli” (Ed.Pacini)
Tutte le fotografie sono state fatte all’esterno del manicomio di Volterra da Claudia Papini.