Cuore di Pietra

 Conversazione con l’artista Pinuccio Sciola sull’arte come necessità.

di Carlo Coppelli

 

NON HO PORTA-DICE LA PIETRA
Conversazione con una pietra
(W
islawa Szymborska)

Busso alla porta della pietra.
– Sono io, fammi entrare.
Dicono che in te ci sono grandi sale vuote,
mai viste, belle invano,
sorde, senza l’eco di alcun passo.
Ammetti che tu stessa ne sai poco.

Sale grandi e vuote – dice la pietra
– Ma in esse non c’è spazio.
Belle, può darsi, ma al di là del gusto
dei tuoi poveri sensi.
Puoi conoscermi, però mai fino in fondo.
Con tutta la superficie mi rivolgo a te,
ma tutto il mio interno è girato altrove.

 

Non è indispensabile essere geologi per essere consapevoli della vitalità e continua trasformazione di questa terra che quotidianamente calpestiamo.

Ognuno di noi può rendersi conto che anche una semplice pietra ha una propria genesi e che il suo aspetto è frutto della compressione, stratificazione, modellamento e mescolanza con forze più grandi di lei. La sua dinamicità è conseguenza del continuo movimento di elementi apparentemente immobili.

Certo, occorre la conoscenza del geologo per comprendere e approfondire e non solo intuire, ma la sensibilità dell’artista può anche arrivare oltre. Ossia, può cercare, individuare e infine svelare l’anima e l’essenza delle cose più ferme e pesanti; l’anima e l’essenza della pietra stessa.

Questo riesce a fare Pino Sciola artista di formazione e risonanza internazionali ma nativo della Sardegna e ben radicato nel suo territorio; questo ricercando e raccogliendo in giro per la sua rocciosa isola grandi pietre che poi scalfisce, taglia, seziona, leviga con meticolosa precisione, fino a farle, finalmente, “risuonare”.

Al di la dell’esito sorprendente, la sua opera riesce a concretizzare in un’azione diversi livelli di complessità. Innanzitutto, a differenza di altri artisti della Land Art, egli si occupa non solo di un generale dialogo fra arte e natura, ma anche dello svelamento del non vitale, dell’apparente amorfo. Ciò attraverso l’applicazione estremamente disciplinata del metodo della Scultura, la quale, a differenza della Plastica (da plastikos: “arte del modellare”) è azione del togliere: infatti, eliminando la parte superficiale della materia, il suo involucro e per certi aspetti penetrando in essa, viene attuata una operazione di spogliazione in grado di scoprire la vera e profonda identità nascosta dell’oggetto, arrivando alla sua essenza; come un forziere sepolto e poi disseppellito riesce finalmente a svelare i propri tesori al cercatore ben determinato.

Giunti a questo punto, il lettore più accorto è facilmente in grado di cogliere l’aspetto più metaforico di questa operazione, accomunando l’oggetto al soggetto, la semplice pietra all’essere umano:

Infatti, facendo un confronto con la relazione d’aiuto (e con le relazioni interpersonali in genere) il terapeuta si rende conto di aver sovente a che fare con persone imprigionate nella loro malattia, a volta effettivamente immobili (si pensi agli stati catatonici) o comunque rallentati (si pensi alla depressione); pietrificate dall’angoscia, racchiuse in una visione superficiale della vita, manipolate da altri, inconsapevoli della loro vera natura e incapaci di dare voce ai loro bisogni.

Scrive Fernando Pessoa nella sua poesia la Tabaccheria: “Non sono niente./Non sarò mai niente./Non posso voler essere niente./A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo.

Certamente un buon terapeuta non può intervenire sulla persona con scalpelli e mazzuole ma, analogamente e in modo meno traumatico con gli strumenti di una relazione accorta, fatta di attenzione, osservazione e cura e attraverso la stessa azione dello scalfire, incidere, togliere e levigare, arrivando sempre più in profondità e riuscendo finalmente a “dare voce” a chi si pensava afono. Essere “pietrificati” (dalla paura, dal terrore), avere un “cuore di pietra”, rimanere”di sasso”…sono tutte frasi che alludono al blocco emotivo, alla incomunicabilità. Ma, come si afferma nell’ecclesiaste, c’è: “Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli”, un tempo per la distruzione e un tempo per la ricostruzione, uno per nascondere e uno per scoprire.

Nel 2004 condussi un laboratorio espressivo nell’ambito del convegno di arte terapia denominato “Naturalità dell’arte e artificio nella natura” su una istallazione del percorso di arte- natura “Arte Sellain Trentino. Si trattava della scultura “Interstizio” dell’artista spagnola Matilde Grau, costituita da diversi blocchi squadrati di legno divisi uno dall’altro da scanalature e assemblati in un grande cubo di legno.

Dalla descrizione della stessa autrice: “Interstizio è il titolo dell’opera e allo stesso tempo dà il nome alle piccole linee di spazio che separano i diversi blocchi di legno, attraverso i quali possiamo intuire un interno che non vediamo… chiaramente, che però si manifesta con uno spazio che afferra e sostiene i diversi parallelepipedi.”

Il laboratorio iniziava con un’esplorazione e un contatto con il solido, scrutando le fessurazioni, battendo aritmicamente o accarezzando la superficie, chi salendovi sopra, chi allontanandosi per prenderne una visione globale, chi misurandone i margini. Il modello dell’artista, in questo caso poteva considerarsi sia imitativo che interpretativo, infatti la natura stessa è sostanzialmente fatta di cose evidenti e cose nascoste. Camminando in un bosco o in un viottolo ci si imbatte in costruzioni in pietra, come muretti a secco e costruzioni, le cui superfici risultano disegnate dai solchi e dalle fessure dei massi. Se sappiamo osservarle, le piccole distanze fra le cose ci svelano grandi segreti e riservano continue sorprese…

Questa esperienza episodica, ma emblematica, e le riflessioni sopra riportate, possono avere una logica introduttiva all’opera di Pino Sciola, artista che ha tradotto questa ricerca in un vero e proprio linguaggio, composto da un vocabolario formale e da una sintassi visiva e sonora.

Terra, rendimi i tuoi doni puri,
le torri del silenzio che salirono
dalla solennità delle radici:
voglio essere di nuovo ciò che non sono stato,
imparare a tornare così dal profondo
che fra tutte le cose naturali
io possa vivere o non vivere: non importa
essere un’altra pietra, la pietra oscura,
la pietra pura che il fiume porta via.

Pablo Neruda

 

L’intervista a Pinuccio Sciola

Lo studio, forse non a caso, si presenta come una specie di grande pietra sedimentaria sezionata: strati e sedimenti di libri, documenti, disegni, fotografie, materiali apparentemente accatastati in modo caotico dove però l’artista si muove con estrema disinvoltura, individuando e rintracciando velocemente, di volta in volta, quanto cercato: quelle immagini e scritti utili a chiarire, di volta in volta, i concetti espressi.

La pietra è attualmente il principale oggetto della tua analisi. Ma la pietra stessa rappresenta l’identità più riconoscibile del paesaggio sardo. Come si potrebbe chiarire il rapporto con la tua terra?

Per me “il paesaggio” è un interlocutore e non, per forza un sinonimo di identità. Anche se ci sono certamente dei valori di insularità che non rinnego.

Non penso di essere un artista “locale”, nel senso che la mia formazione si è svolta principalmente lontano dall’ isola. La mia è una famiglia di contadini e ancora oggi i miei fratelli svolgono questa professione. Anche io lavoravo la terra prima di essere “scoperto” artisticamente, attraverso un premio che vinsi, ad un concorso, al quale alcuni amici, a mia insaputa, mi avevano iscritto portando alcune piccole sculture che facevo nel tempo libero. Io, che non ero per niente istruito.

Da allora la mia vita è cambiata, attraverso borse di studio,ho potuto finalmente studiare: prima a Cagliari, poi a Firenze, all’Accademia Internazionale di Salisburgo, in Spagna. La mia formazione personale ed artistica si è definita attraverso la conoscenza diretta di molti artisti, nel confronto con la loro opera e nei continui viaggi all’estero che facevo, squattrinato, in tutta Europa e in centro Sud America,con una grandissima curiosità e determinazione.

Un artista cosmopolita, quindi, che però ha sentito il bisogno di ritornare al paese di origine…

Racconto un aneddoto: L’origine del mio nome non è di questa terra. A S. Sperate la mia famiglia era l’unica a chiamarsi“Sciola”: Io stesso ho avuto sempre la sensazione di appartenere ad un altro luogo e sentivo una particolare attrazione per il Messico.

Molti anni fa mi capitò di coronare il mio desiderio e soggiornai a Città del Messico, lavorando con muralisti come Siqueiros. Parlando con un mio conoscente dell’Università, questi si soffermò riflettendo sul mio cognome, poi mi portò in un grande viale della città e mi indicò il nome: “Avenida Sciola”.

Un’altra conferma di questa appartenenza mi capitò durante una visita al Musèo Nacionàl de Antropologìa : qui mi sorpresi nell’ osservare un’opera della cultura maya che aveva delle chiare ed inequivocabili assonanze con una da me realizzata anni prima.

 

Queste tue esperienze ti hanno consentito, quindi, di confrontarti con tante realtà diverse e, in un certo senso, di plasmarti e modellare la tua fisionomia attuale. Ma cosa ne pensi del mondo dell’arte attuale? Ti ci riconosci?

Penso che il mondo dell’arte sia troppo influenzato dal potere del mercato e dai meccanismi poco trasparenti legati ai critici e ai galleristi. Ho sempre evitato di farmi legare da contratti ed esclusive con un gallerista in particolare. Sia perché ho potuto vedere altri amici e colleghi limitarsi e vincolarsi in accordi troppo sbilanciati a favore dei mercanti, sia per poter avere una mia libertà: lavorare a idee e progetti a cui credo; quando e dove voglio. C’è da dire, comunque, che l’idea di libertà che possiamo avere in relazione all’arte, è un fenomeno storicamente molto recente. L’artista aveva dei committenti ai quali doveva riferirsi, con canoni e parametri estetici ben precisi e raramente lavorava da solo ma con un’ equipe di collaboratori.

 

Insomma, l’artista come individualità ma pure come emanazione del senso di comunità. Questo modo di fare arte è stato riscoperto in molte attività di laboratorio legate sia al disagio che all’educazione, le quali hanno l’obiettivo principale della comunicazione espressiva.

Veniamo al punto per il quale sia io che i nostri potenziali lettori abbiamo un particolare interesse: l’azione artistica come necessità insostituibile, forse anche primaria. Del resto si potrebbe intendere anche così la motivazione che può aver spinto gli uomini del paleolitico ad affrescare le grotte…

Quando ero in Spagna mi è capitato di visitare il sito di Altamira. La cosa più sorprendente ai miei occhi è come facessero a dipingere in luoghi completamente oscuri, giacchè, probabilmente, non usavano torce, altrimenti sarebbero rimaste tracce di fuliggine alle pareti. Una impressione simile mi ha suscitato la visita delle piramidi egiziane dove troviamo meravigliosi affreschi dipinti nelle camere tombali, in luoghi molto distanti dalla luce accessibili solo da lunghi cunicoli e senza alcuna presenza di fuliggine. Si può dire che questi “artisti” avevano superato i limiti relativi agli ambienti bui per soddisfare la propria necessità estetica di dare luce. Visione dove non poteva esserci che buio. Altro esempio, la spettacolare visione di Assuan, dove il granito è stato tagliato con il fuoco e con l’acqua.

Così come si può parlare di “necessità” al mio bisogno di bambino che mi spingeva a cercare e lavorare la pietra anche stanco dal lavoro ed incompreso da chi mi era vicino.

 

L’azione artistica come capacità di “immaginare”, di prefigurare ciò che ancora non c’è o che non potrebbe esserci. La figura dell’artista come premonitore.

Parliamo ora delle tue pietre sonanti. Qual è il tuo metodo e come scegli le pietre adatte?

Vado in giro, raccolgo informazioni, esploro il territorio, finchè non trovo la pietra “giusta”. Allora verifico questa mia intuizione, cercando un contatto,ispezionandola con cura, saggiandone la consistenza, cercando di sentirla. Alcune volte devo contrattare con il proprietario del terreno che cerca di ricavare dalla vendita della roccia un utile eccessivo.

Poi la trasporto in segheria dove inizia il lavoro scultoreo vero e proprio.

(si avvicina ad una scultura di dimensioni relativamente ridotte ed inizia a manipolarla con i palmi delle mani, ottenendone dei suoni profondi, paragonabili a quelli di un ruscello sotterraneo)

Io lavoro soprattutto tre tipi di rocce: calcaree, graniti e basalti. Ognuna di queste tipologie permette varie sonorità. Sapete perchè questa pietra ha un suono così differente dall’altra? Perchè questo è calcare ed ha conservato il proprio suono che è quello dell’acqua, io l’ho solo liberato.

 

Perciò, in un certo senso, tu fai l’opposto di quello che normalmente viene fatto; invece di prelevare la materia dalla natura e poi trasformala seguendo una logica utilitaristica, cerchi nella terra la sua voce.

La natura è la nostra madre e si deve restituire alla madre ciò che si è tolto; questo per un necessario rispetto nei suoi confronti. Certo, in una forma diversa. Noi non possiamo solo prendere, rapinare le risorse ambientali.

Occorrerebbe invertire la tendenza umana all’estrazione: seminare pietre e non semplicemente estrarle

L’arte è una forma simbolica di incesto: chi pratica questo percorso, s’inoltra nel ventre della madre terra per toccare le sue parti più profonde, ridando alla terra il seme della creatività, un seme di pietra.

 

Anche questa operazione parrebbe simile a quella già descritta. Infatti, il posto dove risiedi, S. Sperate, grazie alla tua attività è diventata una sorta di laboratorio artistico urbano. Un paese che si è aperto e ha svelato la propria vocazione nascosta, che ha fruttificato non solo pesche ma la personalità dei propri abitanti.

Si può quindi parlare di arte pubblica, forse anche “popolare”, ovvero di arte riconoscibile e condivisibile in questo periodo storico che ha ghettizzato l’arte nella gabbia dorata dell’individualismo e dell’eccezionalità.

Ripeto che oltre a prendere, occorre dare. Consentire e condividere: consentire l’apertura degli spazi a chiunque voglia toccare, osservare, porre domande, consentire un’esperienza sensibile che può diventare l’ apertura alla collaborazione alla condivisione. Penso che l’opera debba anche uscire dai musei e acquistare altri scopi che non siano la sola ammirazione e contemplazione.

 

Quali sono i tuoi prossimi progetti. Su cosa stai lavorando in questo periodo?

Il mediterraneo è il contenitore di innumerevoli storie, di civiltà e continue migrazioni.

“Ellos son sin tumbas “. E’ nel nostro mare che abbiamo avuto più vittime che nelle peggiori guerre, centinaia di morti che non hanno sepoltura. Senza identità.

Attualmente sto lavorando sul progetto di una grande installazione in un parco di Parigi; un monumento ai Desaparecidos fatto da grandi pietre irregolari e tondeggianti al loro esterno e cave al loro interno, intagliate regolarmente in forma quadrangolare (prende delle foto e le mostra…). In queste immagini si possono vedere delle prove, delle simulazioni fatte con persone coricate all’interno degli spazi vuoti.

Anche il vuoto serve per ricordare.

 

CARLO COPPELLI Arte terapeuta – docente di Discipline Plastiche ed Educazione Visiva/Istituto Superiore d’Arte di Modena.

Redazione NuoveArtiTerapie
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