Quando il documentario diventa cinema del reale

intervista a Juliane Blasi per MUYEYE

Roberta Calandra

 

  • la presentazione del vostro lavoro recita: “I matti possono cambiare il mondo, è vero? Lo avete sperimentato?
  • Io Juliane dico che è vero! Siamo andati in Africa a Muyeye con i gruppi delle varie Regioni italiane di “Le parole ritrovate” leparoleritrovate.com che insieme all’ associazione ITAKE www.itaken.org volevano costruire una scuola professionale. Con alcuni già ci conoscevamo perché avevamo fatto il documentario Oceano Dentro, con altri era la prima volta che ci vedevamo, ma siamo entrati subito in empatia con moltissimi di loro. Mi è piaciuto subito percepire la curiosità di conoscere, la voglia di rapportarsi agli altri e a noi della troupe. Forse molti inizialmente avevano aspettative diverse perché all’inizio la scuola la volevano costruire loro, ma questo ovviamente non era possibile, anche in Kenia ci sono regole edilizie ecc.., e così dopo aver raccolto in Italia i soldi necessari hanno deciso di venire in Kenia di persona per vedere l’andamento dei lavori e confrontarsi con la gente del villaggio. Ricordo che una volta Mary Kenga direttrice e insegnante della scuola primaria di Muyeye mi disse “sono rimasta profondamente colpita da queste persone..: è molto bello che gente con problemi psichici sia venuta in Africa con un progetto così importante.., questo è un esempio per noi africani.., significa che anche da noi i “matti” potrebbero fare grandi cose”, poi aveva guardato verso l’orizzonte. In quel punto c’erano dei grandi baobab e la cava di sassi dove lavorava la famiglia di Nebat Jumba.

 

  • come è nata la collaborazione con il progetto di ‘Le parole ritrovate’? Il documentario vi faceva parte dall’inizio?
  • Noi di Kuraj film, cioè io e Sergio Damiani, già da diversi anni frequentiamo il mondo di “Le parole Ritrovate” e i gruppi del “fareassieme” fareassieme.it, con molti siamo amici, abbiamo anche una pagina su Facebook. La nostra collaborazione con loro è sempre fondata su un progetto audiovisivo, quindi certamente l’idea di realizzare un documentario era parte costitutiva della nostra relazione fin dall’inizio. Qualche anno fa abbiamo realizzato insieme il documentario Oceano dentro che racconta il viaggio di Pier Gianni Burreddu attraverso l’oceano Atlantico. Su una barca a vela insieme ad altri uomini e donne con disagio psichico, Pier ha suonato il suo basso tra delfini e balene, è passato indenne attraverso burrasche, ma soprattutto ha saputo affrontare a viso aperto la sua malattia. Soprattutto non immagina che quella rotta oceanica in realtà lo sta riportando a casa, in Sardegna. Durante la navigazione Pier ripercorre la sua storia: il travagliato rapporto con i genitori, la malattia mentale, gli elettoshock, i molti ricoveri, ma anche la forza vitale della sua musica. Alla fine sbarcando nel nuovo mondo ritroverà il coraggio e il desiderio di tornare a Sassari dove tutto era cominciato molti anni prima in un ospedale psichiatrico.

Poi abbiamo voluto seguire anche il viaggio in Kenia. Da questa esperienza è nato il documentario Muyeye. La sinossi dice che Muyeye è un villaggio polveroso sulla costa del Kenia. In una capanna di fango vive la famiglia di Nebat Jumba che si mantiene spaccando sassi. Un giorno a Muyeye arrivano dei bianchi; non sono i soliti turisti. Sotto il vecchio baobab i nuovi venuti raccontano storie di malattia mentale, ma promettono anche di costruire una scuola professionale gratuita e aperta a tutti. E’ il germoglio di un’amicizia che legherà due mondi distanti, eppure accomunati dall’essere esclusi: i bianchi “matti” marchiati dal pregiudizio, i neri tagliati fuori dalle risorse e dal futuro. Ma Nebat ha un motivo in più che lo lega ai nuovi amici: Riziki, la sua seconda moglie e madre dei suoi quattro figli, è tornata al villaggio dei genitori perché considerata pazza. Un documentario sulla follia e sull’Africa che dimostra appunto come anche i “matti” possano cambiare il mondo. Mi piace il documentario come cinema del reale cioè che lasci accadere le cose; considerando anche che abbiamo spesso tempi brevi, era anche molto difficile la costruzione del documentario perché ci trovavamo 200 persone che venivano a gruppi di 15 e cambiavano quindi non era semplice costruire su di loro, così abbiamo deciso di seguire Nebat e su questa scelta pian piano telecamera e microfono sono diventati naturalmente parte del gruppo. In un primo tempo pensavamo di inserire di più la nostra presenza ma poi ci siamo resi conto che sarebbe stata una forzatura

 

  • due parole per raccontarcelo… quali “patologie” erano dei partecipanti e in che misura potevano ritenersi “guariti” o meno
  • A dire il vero le patologie erano molte, ricordo solo qualche nome come disturbi bipolari dell’umore, disturbi dissociativi della personalità, fobie, ossessioni, disturbi schizofrenici oppure ossessivo compulsivi o ancora disturbi da personalità paranoide. Posso citare però quello che mi ha detto Renzo De Stefani lo psichiatra responsabile del progetto quando ho affermato che secondo me i pazienti venuti in Africa non erano certo quelli veramente gravi. Mi ha detto che invece era vero il contrario, che alcuni di loro anzi erano stati quelli che avevano più severamente impegnato il servizio di igiene mentale nel corso degli anni. Quindi la “gravità” della malattia mentale spesso è più generata dall’allarmismo della risposta sociale che dalla malattia in sé. Io non lo so se è possibile una totale guarigione, di sicuro tutti si mettevano seriamente in discussione e cercavano di dare il loro meglio nonostante incertezze, e timori. Ricordo Marco, che nel villaggio a casa di Alex, dice che non riusciva più a ridere e che a Muyeye invece tutti ridono nonostante l’estrema povertà e questo è una cosa che lo ha aiutato tantissimo. Tra l’altro Marco diceva quella cosa perché lo divertiva e mentre la diceva a modo suo stava RIDENDO. Abbiamo visto Marco parlare molto con la gente del villaggio nonostante la sua grande difficoltà a rapportarsi con gli altri. Fabio invece per primo dice di voler incontrare Risiki, la seconda delle due mogli di Nebat che soffre di forti disturbi. Lui cerca poi di convincerla che questi disturbi sono una malattia “normale” e che si può fare qualcosa per stare meglio. Dice “col tempo vedrai guarirai”. Purtroppo oggi Fabio non c’è più. Poco tempo fa durante una sera qualunque ha lasciato il mondo attraverso le acque gelide del fiume Adige. Le parole di sostegno che aveva trovato per Risiki purtroppo non sono servite a lui stesso. Molti partecipanti ci raccontavano di un male che non è fisico ma esistenziale che spesso è troppo difficile da sopportare. Qualcuno come Fabio non ce la fa.

 

  • in che misura hanno collaborato al film i pazienti, i medici, i parenti?
  • Ciò che avevamo richiesto come collaborazione era che ognuno si sentisse libero di essere. Noi di Kuraj film, quando eravamo presenti lo eravamo sempre muniti di videocamera e microfono, se qualcuno, per qualche motivo, non voleva essere ripreso bastava ci facesse un cenno. A Muyeye tutti vivevano l’esperienza molto intensamente: il viaggio, l’arrivo in Africa, il territorio, il clima, l’impatto con la diversità e quindi si creavano anche momenti di imbarazzo perciò noi ci orientavamo su altro se non erano gradite le riprese. Il nostro approccio visivo è quello del cinema del reale, ma pure noi eravamo coinvolti ed eravamo aperti a lasciarci attraversare dall’attimo vissuto. Inizialmente volevamo raccontare la storia di un bambino del villaggio che poi avrebbe frequentato la scuola professionale, poi però abbiamo conosciuto Nebat alla cava di sassi. Con lui abbiamo parlato a lungo, così abbiamo scoperto che viveva con due mogli e quattro bambini e che appunto Risiki era da poco tornata dai genitori perchè considerata pazza. Era un racconto appassionante e coinvolgente. In men che non si dica, durante la notte, abbiamo riscritto tutto e deciso di seguire questa storia di adulti che erano comunque i genitori dei bambini che frequentavano la scuola. Fabio e Marco hanno parlato con gli psichiatri proponendo di far visita a Risiki. Dopo aver ottenuto l’OK ci siamo messi in marcia. Risiki non intuiva nulla del nostro arrivo quindi non sapevamo come avrebbe reagito. Inizialmente si era spaventata, ma poi le parole di Fabio (ovvero di Alex che traduceva tutto in lingua griama) l’hanno rassicurata. Abbiamo cercato di essere molto discreti, ma anche attenti e presenti con telecamera e microfono. Era un’ esperienza anche per noi e molto coinvolgente. Noi stessi volevamo capire ed eravamo curiosi di tutto. La collaborazione dei pazienti (soprattutto) e dei medici (marginalmente) è stata quindi concepita in questo senso, rendersi disponibili a seguire questo incontro, che non era né previsto né preparato, con la curiosità e la passione umana autentica che la vicenda comportava. Da quel momento le sorti del documentario e quelle dell’esperienza a Muyeye di tutti noi si erano fuse in una cosa sola. Era appassionante vedere Risiki che attratta dalla videocamera si era avvicinata da dietro e incredibilmente incuriosita voleva capire come funzionava e aveva cominciato a sorridere.

 

  • come è stato l’incontro tra le due differenti idee di ‘follia’?
  • Premesso che il “fuoco” di Muyeye era raccontare soprattutto il punto di vista italiano e della psichiatria italiana, da quello che si è visto verrebbe voglia di fare un documentario sulla psichiatria africana. Certo, noi non abbiamo condotto una ricerca in questo senso, perché, ripeto, non era nelle finalità del nostro documentario. Forse colpisce il modo scarsamente “istituzionalizzato” di affrontare la malattia mentale. E’ vero che a Mombasa esiste una struttura manicomiale, con tanto di guardie e muro perimetrale. Però da quella struttura si esce facilmente; nelle famiglie non esiste la pesantezza dello stigma che c’è nelle famiglie occidentali, e la famiglia si presta volentieri ad accogliere il paziente che si comporta in modo strano. Ci ha colpito anche un termine che talvolta usavano tra loro per definire i matti. Li chiamavano “i maleducati”. Segno di un approccio certo molto superficiale e improvvisato, ma nella sua ingenuità questo termine rivela una stupefacente assenza di giudizio di merito, e il disinteresse a fare del “matto” una categoria pregnante e indelebile. Questa realtà è talvolta modificata dall’intervento dello sciamano: i comportamenti “strani” infatti lui li considera spesso legati a motivi demoniaci perciò molte pratiche di guarigione si orientano a scacciare il demonio dalle persone.

 

  • i sogni di due diverse categorie di emarginati se si incontrano diventano più forti?
  • Sì, assolutamente, da una parte la scuola professionale permetterà ai ragazzi di continuare a studiare e imparare un mestiere cosa non facile in quanto in Kenia tutte le scuole superiori si pagano e quindi per i genitori di Muyeye questo è un sollievo. Una delle preoccupazioni, delle famiglie più povere, è infatti che finita la scuola primaria i ragazzi se ne vadano sulle spiagge a elemosinare o nei casi peggiori finiscano nella rete del turismo sessuale. Mentre per i partecipanti italiani è stata un’esperienza che ha lasciato molti segni, credo soprattutto nel relazionarsi alla estrema povertà. Si sono create anche delle amicizie che continuano nel tempo, so che alcuni sono già ritornati a Muyeye. Poi, ovviamente, ci sono state anche situazioni spiacevoli: una ragazza è stata derubata della borsetta, poi qualcuno si lamentava che in Africa tutti chiedono sempre soldi o regali e questo a volte è stato stressante, però come dicono i nostri amici “tutto il mondo è paese!”

 

  • quale era il sogno, l’idea guida per voi, alla base del progetto? sentite di averla realizzata?
  • I sogni erano due e uno dentro l’altro. “Fareassieme” e “Le parole ritrovate” avevano il sogno che qualcosa di importante e di significativo accadesse tra “matti” italiani e africani poveri, in particolare la scuola. Il nostro sogno di documentaristi era di raccontare questo loro sogno, e di farne in qualche modo parte. Diciamo che avevamo un “meta – sogno”. Sullo sfondo ci stava la costruzione della scuola voluta fortemente dagli amici di “ITAKE”, l’associazione Italia-Kenia che aveva lanciato la sfida della scuola professionale a Muyeye. Il filo rosso era la storia di Nebat a Muyeye con la sua famigliola, poi l’arrivo degli “strani italiani” che si alternavano, ma ognuno lasciava e prendeva qualcosa di sè. Prima Fabio e Marco che vanno a cercare Risiki e la convincono che la sua è una malattia che si può guarire, poi Ketty, Gianna, Efisio e Tommy raccontano la loro esperienza e la condividono con Nebat e Kahaso – l’ altra moglie di Nebat – poi anche con Risiki; nessuno si sente né meglio né peggio dell’altro, ma è una condivisione sincera anche se dolorosa. Risiki un giorno ci ha raccontato di quanto fosse stato importante per lei ascoltare Ketty e Gianna perché per la prima volta si era sentita capita in relazione alla scelta di non voler vedere i suoi bambini a causa di questa grandissima sofferenza, per la prima volta c’era qualcuno che aveva vissuto episodi come i suoi ed era già sulla via della guarigione. E quindi questo poteva accadere anche a lei. Tutto il villaggio era a conoscenza della storia che andavamo raccontando nel documentario e ora Risiki veniva vista con altri occhi, insomma non era più l’indemoniata. Soprattutto il figlio più grande Lucas vede la madre sotto un’altra luce. Poi c’è un altro sogno, quello di Nebat e Kahaso, ed è che appena Risiki starà meglio possa tornare e insieme possano affittarsi un pezzo di campagna da coltivare. La vita lavorando alla cava di sassi è troppo dura. Devo comunque dire che fare documentari sulla malattia mentale non è facile, piacciono più a chi non ha il problema che a chi li ha, diventa poi difficilissimo nei lavori in cui cerchi di capire i perché, perché sei diventato matto, poi io ovviamente non sono un tecnico, un terapeuta, io documento ma non posso dirti che “guariscono”. La mia posizione è comunque sempre quella di cercare di vivere con loro un’esperienza e non solo registrarla. E’ accaduto anche di restare amici con i protagonisti di alcuni progetti.

 

  • i pazienti italiani parlando di sé elencano diverse difficoltà di relazione con le persone, in Africa sono state superate o affrontate diversamente?
  • Qui devo dire che c’è stata una ulteriore difficoltà, la presenza della videocamera. Quindi lo sforzo fatto nel relazionarsi o nel tentativo di farlo – ovviamente non sempre riusciva – era doppio. Però forse sì, in Africa c’era tutta un’atmosfera coinvolgente che in molti casi ha permesso di entrare in profondità, e ha permesso un’apertura nei confronti dell’altro più ardita. Non c’era la paura dell’incomprensione nonostante le lingue diverse. D’altra parte per lo più la gente del villaggio si mostrava per quello che era e non nascondeva assolutamente il bisogno di ricevere aiuti, regali ecc… anzi molti chiedevano esplicitamente. Anche i bambini – quel mare di bambini – perciò le caramelle, le penne o i quaderni non erano mai abbastanza. Molti tra gli italiani non condividevano l’atteggiamento assistenzialista così tipico nei paesi africani e cercavano di proporre nuove argomentazioni come ad esempio far presente che lo scopo del viaggio non era turistico o appunto assistenziale, ma si cercava di costruire una collaborazione utile nel contesto della scuola e che quello sarebbe stato un aiuto alla lunga molto più proficuo.

 

  • i partecipanti provenivano da differenti regioni italiane, vi sono state delle differenze di “adattamento”?
  • L’adattamento in un paese altro è un atteggiamento personale. Teresa Abis, del gruppo Sardegna, mi ha raccontato “il giorno che sono arrivata in Africa la cosa che mi ha colpito erano i colori bellissimi dei fiori e i grandi baobab, mi sembrava un paradiso: questo era Malindi. Ma a pochissimi km c’era un’ altra realtà: la terra rossa, tantissima polvere e tantissimi bambini. Non ho visto giocattoli di plastica perché li costruivano loro. Con le radici degli alberi hanno ideato un bellissimo dondolo, con elastici la palla e infine c’era il gioco con la corda. La cosa che più mi ha fatto sentire impotente in quella realtà è stato vedere tanta povertà e tante piccole mani che ti toccavano per avere un pò d’acqua e ricevere una speranza per migliorare la vita”. Molti per la prima volta si sono sentiti veramente utili e avrebbero voluto fare di più. Muyeye, il Kenia, l’Africa all’inizio erano luoghi lontani nello spazio ma anche nell’immaginario perciò i gruppi di “Le parole ritrovate” delle diverse Regioni italiane che hanno partecipato all’esperienza hanno anche portato canzoni, poesie, racconti e musica e giochi, qualcuno anche cibi tipici da presentare e scambiare con i nuovi amici. La gente del villaggio ha pure preparato del cibo locale: fagioli, polenta bianca e spinaci selvatici e invitato gli italiani nelle loro capanne o case.

 

  • l’aspetto “terapeutico” è stato nel confronto con gli africani, nella comunanza tra gli stessi partecipanti, nella durezza del lavoro o cosa?
  • Credo tutta l’esperienza nel suo insieme. Un’esperienza che continua nel tempo.

 

  • decontestualizzata, la “follia” scompare o comunque cambia volto e fa meno paura?
  • Dal punto di vista del documentario la follia ha certo la sua ragione di esistere, nel senso che non sparisce appena viene immersa in un contesto relazionale più favorevole e accogliente. Però quello che emerge sempre è che se si conosce la follia non fa più paura o ne fa di meno. Poi rimane naturalmente il fatto che è difficile conviverci. Nebat e Kahaso e i quattro bambini desiderano tantissimo che Risiki torni a casa, ma solo se sta meglio e per usare le parole di Nebat “solo se riesce a stare con le persone” altrimenti è troppo difficile per loro che sono poverissimi, e stanno in Africa, tirare avanti senza il sostegno di qualcuno.

 

  • perché nel film avete omesso i medici?
  • I dottori e gli operatori erano sempre presenti anche per garantire la massima protezione agli utenti, ma non erano indispensabili nel film. Fabio e gli altri hanno messo in pratica tutto quello che avevano imparato sulla loro pelle ed essendo in un percorso di guarigione hanno semplicemente voluto condividere tutto con Risiki in primis e poi con tutti grazie alla videocamera. Quasi alla fine del film, quando Gianna e Ketty vanno da Risiki, si portano anche la dottoressa, perché era una donna, e forse sarebbe stato più facile per Risiki farsi aiutare. La nostra presenza, la telecamera e il microfono erano ormai pienamente accettati. Io mi commuovo sempre quando mi accorgo che la barriera scompare e le persone vivono liberamente l’attimo.

 

  • “Tutti sorridono” in Africa, o così pare, dunque si è rivelato più di un luogo comune? Il sorriso è risultato di per sé terapeutico?
  • Il sorriso in Africa è un dono d’amore, è l’unica cosa che non costa nulla e fa star bene tutti. Questa poesia di Franca Camilli del gruppo Emilia Romagna arrivata sulla nostra pagina facebook rende l’idea:

Gli occhi dei bambini il sole il mare il vento. di Franca Camilli

Mi sei piaciuta Africa,nonostante gli occhi dei tuoi bambini che senza parlare, raccontavano tutta la loro storia di sofferenza dignitosa come solo un popolo può esserlo nella povertà. Africa con la tua rassegnazione, con la tua umiltà, con le tue capanne fatte di fango non mi hai fatto pensare con tristezza ad una situazione estrema, ma ho sentito l’inaccettabilità della tua condizione, di chi non ha mai tregua nella ricerca di una ragione per vivere e sperare in un domani migliore. Per la tua gente non c’é interruzione ogni giorno si combatte per la sopravvivenza, la tua gente umile e quindi forte, sorridente e quindi fiduciosa, mai troppo triste, mai troppo furba, mai arrabbiata, vive con onestà verso sé stessa. Africa ti ho sentita grande come se tu fossi la madre del resto del mondo nel sole, nel mare e nel vento. (tratto dal Blog Social Point di Modena)

  • E’ stato più complesso l’incontro tra i pazienti italiani e gli africani “sani” o quelli “disturbati”?
  • Era complesso in entrambi i casi anche perchè le differenze sostanziali erano quelle che riguardano ricchezza e povertà. Molti utenti in Kenia si sono sentiti dei ricchi, nonostante percepissero una pensione minima, a confronto di Nebat, di Kahaso e tanti altri che lavorando sotto il sole cocente spaccando sassi riuscivano a guadagnare cinquanta centesimi al giorno, che sono pochi anche in Africa!

 

  • (Fabio)Un tentato suicida dice all’africano che probabilmente guardandolo si sarebbe chiesto “che cosa ti manca”… c’è qualcosa di vero?
  • Certo, Fabio inizialmente sosteneva che tanti mali psichici erano causati dal benessere dell’occidente, anche la sua malattia, e pur non ritenendosi un ricco diceva anche che non gli mancava niente e quindi era amareggiato vedendo che Nebat poverissimo e con tanti problemi non voleva arrabbiarsi né con lui né con il mondo. Anche in Africa esiste la malattia mentale e Risiki ne era la prova.

 

  • Come è avvenuto il processo del rivedersi? Che risultati ha portato?
  • Il documentario era stato visto per la prima volta durante il convegno annuale di “Le Parole Ritrovate” che si tiene a Trento, poi alla Casa del Cinema a Roma e poi ancora siamo andati in onda su Doc 3 il programma dedicato ai documentari d’autore di Rai3. Ora è ancora possibile vederlo in streeming sul sito Video Rai.TV – Doc 3 – 2011 – Muyeye – Doc 3 rai.tv perchè nonostante le proiezioni tantissimi non lo hanno ancora visto. Quindi il processo del rivedersi è ancora in corso, ma inizialmente dopo i momenti di commozione e complimenti vari ci sono stati diversi momenti di condivisione con discussioni. C’era chi ha apprezzato la scelta di focalizzare l’attenzione su pochi partecipanti, altri che avrebbero voluto essere più presenti. Poi bisognava fare i conti con il contenuto della condivisione e quindi assumersi anche la responsabilità di ciò che è stato condiviso con un pubblico che esce dai confini di un piccolo gruppo. Qui cadono le barriere della protezione, quindi ci si ritrova esposti e questo fa timore a volte. Ricordo Fabio che alla proiezione a Trento non ha voluto essere presente perchè mi ha detto che non ce la faceva ad affrontare il pubblico, poi mi ha mandato un sms che diceva “è stata l’esperienza più bella della mia vita e il documentario mi permette di riviverla ogni volta che lo rivedo”. Mirella (una famigliare con una figlia schizofrenica) che era la simpaticissima nonna del gruppo Trentino Alto Adige, ultra ottantenne, ha attivamente partecipato all’avventura in Africa, e si è lamentata perché abbiamo inserito nel montaggio una sequenza dove lei si commuove e piange, dicendoci che non interessava a nessuno vedere una anziana signora piangere. Invece proprio mia madre ha sentito molta empatia proprio per quel pianto. Per un aspetto terapeutico direi che ci sono differenze sostanziali tra vedere il documentario in proiezione pubblica e durante una sessione di gruppo.

 

  • -“Ce ne vuole per fare assieme”, paradossalmente un progetto di questo tipo si potrebbe riportare in Italia?
  • Il “fareassieme” è un’idea nata in Italia; cito dal sito fareassieme.it “Il fareassieme sono tutte le attività, i gruppi, le aree di lavoro promosse dal Servizio di salute mentale di Trento, in collaborazione con le Associazioni AMA e La Panchina, in cui sono coinvolti alla pari utenti, familiari, operatori e cittadini che così imparano a lavorare assieme. Il fareassieme è un approccio che valorizza la partecipazione e il protagonismo di tutti, che si sviluppa in rapporti di condivisione tra utenti, familiari e operatori, vissuti in un clima amicale e ricco di affettività.” Nessuna delimitazione territoriale quindi all’applicazione di questi principi, all’estero come in Italia.

Prossimi progetti? In genere i nostri documentari sono legati a un viaggio. Questo viaggio può essere territoriale come nel caso di Oceano Dentro e Muyeye oppure confinato in uno spazio ristretto e quindi il progetto al quale stiamo lavorando ora è ambientato tutto all’interno del piccolo vecchio carcere cittadino di Trento e racconta l’ultimo anno prima della sua chiusura. A stretto contatto con i detenuti, ma anche con chi lavora in carcere. L’idea è di dar voce al luogo più invisibile della città prima che sparisca per sempre. Sempre con uno sguardo attento all’animo umano al di là di giudizi o pregiudizi.

 

Sia OCEANO DENTRO che MUYEYE sono una produzione Kuraj e co-produzione Format –Centro Audiovisivi della Provincia Autonoma di Trento con il sostegno della Regione Trentino Alto Adige

 

ROBERTA CALANDRA scrittrice, autrice e counsellor, ha collaborato con la Rai per la scrittura di numerosi testi. Tra le sue pubblicazioni il saggio “Il cogito ferito” edizioni Zephyro, e la sceneggiatura “otto” Arduino Sacco edizioni

 

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