Dolore e creazione

Di Gianni Capitani

 

 

 

 

 

 

 

 

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Il dolore è un elemento indispensabile per la creazione artistica?

Se devo stare con una sola risposta a questa domanda, sicuramente la mia risposta è no.

In senso assoluto, il dolore non è indispensabile per la creazione artistica, ma credo che sia difficile rispondere in maniera ragionevole se non si specifica di quale tipo di dolore stiamo parlando.

Intanto il dolore è un’emozione molto variabile, così come é variabile la sensibilità di ogni persona: ci sono eventi che in alcune persone provocano molto dolore e in altre molto meno. Il dolore come tutte le altre emozioni, non credo abbia un ruolo preferenziale: semplicemente può essere una delle motivazioni possibili per la creazione artistica.

L’artista per creare deve “controllare” il suo dolore, come tutte le altre emozioni.

Cercherò di spiegarmi su questo tema delle emozioni “controllate”.

In qualche misura per creare si deve dominare il proprio caos interno: se non si domina non si crea. Si può finire malissimo, ma non si crea: anche gli artisti più “pazzi” non sono così radicalmente “pazzi”, perché se lo fossero non potrebbero produrre.

Dentro il caos interno c’é anche il dolore: per esempio nel caso di Louise Bourgeois una forte motivazione nel suo lavoro é l’irrimediabile e dolorosissima separazione tra “l’io” e “l’altro”, (la Madre, il Padre, la Francia, ecc.). Nonostante ciò c’è il bisogno di vivere l’esperienza problematica con gli altri: il dolore non può essere devastatore perche’ l’arte possa dargli un senso.

Mi piacerebbe citare le parole di Louise Bourgeois:

“Io ero con mio padre, ed era impossibile convincerlo. Se io parlo a te e tu non mi ascolti, io non posso convincerti: tu assumi un atteggiamento superiore, e con questo suggerisci che io non sono nessuno. Accetto la sconfitta e ti abbandono, e cercherò allora qualcosa sulla quale io possa avere un effetto.

L’arte é diventata per me quella possibilità”.

Mi sembra che più chiaro non si può dire: per poter produrre non devo lasciarmi distruggere dal dolore. Approfitto di questo dolore e lo trasformo in motivazione per la creazione artistica.

Si rivela chiaramente il tema “arte – vita, vita – arte”: l’artista deve avere una forte convinzione sul suo fare arte, perche se la vita vince con le sue profonde e laceranti emozioni, tra le quali il dolore, per l’artista arriva la morte creativa, e non di rado anche quella fisica.

Per creare, l’arte deve vincere la vita. Ancora lo dice Louise Bourgeois: “L’arte sequestra la vita”, e questo l’artista lo deve sopportare, deve accettare che nel bene e nel male la sua vita sia sequestrata dall’arte.

C’é comunque un dolore specifico che riguarda l’artista: la sfida continua con la creatività e con la materia, e do a questo termine un ampio significato, non solo “materiale”. E’ un dolore che arriva quando non si riesce a dare forma alla spinta interna.

Quando l’artista lavora ha bisogno di avere il “controllo” dei suoi strumenti, di un metodo insomma, ma spesso tutto ciò non risponde, e la situazione diventa estremamente dolorosa: se si abbandona a questo dolore, gli diventa molto difficile mantenere il controllo dell’esperienza.

Forse esagero ma credo che il maggior dolore per un artista sia di trovarsi in crisi creativa, in un angolo senza uscita: quando la materia non si trasforma sotto le sue mani e rimane lì, inerte, ostile. Questo é veramente un dolore terribile, il dolore di “…aprirsi un varco, lentamente e con pazienza, attraverso un muro di ferro invisibile, che sembra si trovi tra quello che si sente e quello che si può”. (Artaud)

O come dice Sandro Penna: “Forse mancava una direzione precisa al nostro amore delle cose, e quel verde, quella poesia sensuale inasprivano la nostra gioia senza indicarci nulla, non so come dire, lasciandoci soli”.

Se riesce a “controllarlo”, l’artista può arrivare ad avere un rapporto soddisfacente con il dolore, un rapporto che può procurargli anche piacere, il piacere appunto di creare.

Per arrivare al piacere di creare, l’artista é disposto a molto, ma perché avvenga questa metamorfosi si deve cantare il dolore, non si può essere solo addolorati, anche se profondamente addolorati: c’é bisogno di saper cantare il dolore, e ci sono molti modi di cantarlo.

Per cantarlo c’e bisogno di consegnare il proprio dolore alla creatività, di essere disponibile a fare questa consegna.

L’ultima produzione di Mark Rothko, con colori neri e bianchi si relaziona spesso con una dimensione tragica: i suoi problemi fisici, esistenziali, il suo divorzio eccetera, possono rappresentare una motivazione sensata per la tragedia, che però non convince, dato che lui stesso in una intervista del 1958, dodici anni prima di suicidarsi dice: “La dimensione tragica dell’immagine si trova presente nella mia mente quando dipingo e mi accorgo quando la raggiungo, però non saprei mostrarla, ne dire dov’é rappresentata, non ci sono teschi ne ossa”.

La dimensione tragica, il dolore, era presente in Rothko molto prima dei suoi ultimi quadri, e questo mi fa pensare che può essere valida anche un’altra lettura: in lui, la vita stava vincendo l’arte.

Mi vengono alla memoria alcune frasi di Beckett: non c’è niente da dire, niente con che dirlo, niente da dove dirlo, nessuna voglia di dirlo, nessun obbligo di dirlo.

 

Gianni Capitani artista, counsellor, fondatore direttore dell’Istituto Fenix di Puebla, Messico

Redazione NuoveArtiTerapie
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