22 Mag Educ’arte
RIFLESSIONI SU ARTE TERAPIA E FUNZIONE EDUCATIVA DELL’ARTE.
di Carlo Coppelli
Preambolo…
Beneducato e maleducato oggi risultano parole vetuste, rievocative di mondi passati; lontane epoche dove i modelli educativi erano chiari, i mulini erano bianchi e dove le famiglie erano (almeno apparentemente) unite. Insomma, l’autorità educativa dei genitori e degli insegnanti non era minimamente messa in discussione.
A ben vedere nessuno si sognerebbe di apostrofare con: “MALEDUCATO!” il teppista che compie atti vandalici, l’automobilista che ci tampona l’auto, la persona che prepotentemente cerca di superare l’ordine di una fila, lo scippatore che ruba alla vecchietta in strada o lo studente che interrompe la lezione. Chi lo facesse, probabilmente, troverebbe come risposte prima lo sbigottimento del soggetto così richiamato, poi la sua incontenibile ilarità.
I notevoli cambiamenti dei recenti stili di vita hanno origine in diversi fattori e sarebbe presuntuoso da parte mia cercare soltanto di fare un’approssimativa elencazione delle cause in questo articolo. Rimane però la sensazione di una frammentazione dei ruoli che ha contribuito a rendere più indefinito il quadro d’insieme. Pensiamo, ad esempio, alle separazione fra ambito educativo ed ambito formativo…come se non esistessero connessioni continue fra queste due valenze!
Però, certamente, non è mia intenzione rimpiangere i “bei tempi andati”.
E’ sufficiente riscontrare un evidente insicurezza e difficoltà maggiori, rispetto al passato, ad adempiere efficacemente al ruolo educativo da parte dei soggetti storicamente deputati a questo, quali genitori ed insegnanti ed un’ ardua ricerca di definizione da parte delle nuove figure di supporto quali educatori professionali e tutor. Quali ricette, modelli, stili comportamentali, accorgimenti, quali soluzioni o, quantomeno, indicazioni possono essere proposte, per cercare di superare l’impasse di pratiche educative che spesso “vanno a tentoni” variando, con scarso equilibrio, dalla rigidità (auto) difensiva alla fatica della fermezza?
Essendo insegnante, ho evidentemente interiorizzato un mio “stile educativo”; nel contempo però, mi occupo quotidianamente di laboratori espressivi e, in particolare, di arte terapia e ciò mi è servito a contenere le mie modalità e convinzioni, in altri termini ad essere più plastico e recettivo, attraverso la pratica dell’osservazione e dell’ascolto. Con questa premessa, mi proporrò, nella seguente trattazione, di cercar di fornire alcune chiavi di lettura, cercando, altresì di non spalancare la mia porta.
Cominciamo da un breve racconto.
LA STORIA DI YAK- DO- SE
Come ogni favola che si rispetti l’inizio è testuale, come il campanello a scuola ha sempre lo stesso suono: “c’era una volta”. Come ogni favola questo breve racconto ha una morale esplicita e tante possibili e variabili chiavi di lettura…
C’erano una volta tre dervisci che si chiamavano YAK Baba, DO- Agha, SE- Qualandar i quali venivano, rispettivamente, dal nord, dall’ovest e dal sud. Tutti e tre cercavano una via per raggiungere la verità profonda. Il primo si sedeva in contemplazione fino a quando gli veniva il mal di testa; il secondo si teneva per ore sulla testa finchè i piedi gli cominciavano a dolere; il terzo leggeva libri smettendo solo quando il naso non gli sanguinava. Vista l’inutilità dei loro sforzi decisero di unirsi: si ritirarono in un luogo appartato e cominciarono ad eseguire insieme i loro esercizi sperando nell’apparizione della Verità Profonda. Per quaranta giorni e quaranta notti perseverarono ed infine apparve loro la testa di un vecchio .
“ Sei Khidr, la guida degli uomini?” chiese Yak.” si tratta del Qutub, il polo dell’universo, disse Do. “No è uno degli Abdal, i trasformati”, sostenne il terzo.
“ Non sono nessuno di loro, ma ciò che credete che io sia”, disse risentito, e aggiunse: ”Tutti e tre desiderate ciò che chiamate la verità profonda? Non avete mai sentito il detto: esistono tante vie quanti i cuori umani?” Chiese il vegliardo. “Comunque ecco le vostre vie: Il primo derviscio viaggerà nel paese degli idioti; il secondo dovrà scoprire lo Specchio Magico; il terzo derviscio si rivolgerà al Ginn del vortice”.
Detto ciò, sparì.
I tre discussero animatamente, non solo per poter capire meglio come affrontare il viaggio, ma pure perchè ognuno di loro, in cuor suo pensava che il proprio modo fosse migliore.
Yak- Baba fu il primo a lasciare la cella ed iniziò a chiedere a tutti dove potesse trovarsi il paese degli idioti. Finalmente avuta l’informazione vi si recò e subito vide una donna che portava una porta sulle spalle e chiese:” donna, perché fai questo?”. Lei gli rispose: “questa mattina, prima di uscire mio marito mi ha detto: ‘Moglie, questa casa contiene oggetti preziosi! Che nessuno oltrepassi la porta!’ perciò quando sono uscita me la sono portata via, perchè nessuno possa passarci. Ora, per favore, tu fa passare me”.
“Se vuoi posso dirti come liberarti di questa incombenza”, disse Yak. ”No! L’unica cosa che potresti fare per aiutarmi è dirmi come alleggerire il peso”, rispose lei. “Questo non posso farlo”, disse il derviscio e con questo si separarono.
Poco distante vide un gruppetto di persone che tremavano di paura davanti ad un enorme anguria. Non abbiamo mai visto un simile mostro, crescerà ancora e ci ucciderà tutti”, gli dissero. “Volete delle spiegazioni?” Ma loro risposero: “Non fare l’idiota! Non vogliamo sapere niente! Uccidilo e ti ricompenseremo”. Allora Yak tirò fuori il coltello, tagliò una fetta d’anguria e si mise a mangiarla. I paesani, terrorizzati gli diedero delle monete raccomandandogli però di non tornare più, perchè avevano paura di essere loro stessi divorati da lui. Fu così che capì che per vivere nel paese degli idioti bisognava anche essere capaci di pensare , parlare e comportarsi come un idiota. Dopo qualche anno la sua perseveranza ebbe i suoi frutti e riuscì a portare alla ragione alcuni di quegli idioti ed ebbe la sua ricompensa: la conoscenza profonda. Tuttavia pur diventando un santo per gli abitanti, loro si ricordarono di lui solo come l’uomo che sventrò il mostro verde e bevve il suo sangue. Cercarono di imitarlo per pervenire alla conoscenza profonda ma non ci riuscirono mai.
Intanto anche Do stava viaggiando con lo stesso scopo e diverse istruzioni.
Ovunque andasse chiedeva dove poter trovare lo specchio magico e dopo molte peripezie capì che si trovava in un pozzo, sospeso ad un filo sottile come un capello. Lo specchio stesso era un frammento composto da tutti i pensieri degli uomini e non c’erano abbastanza pensieri per poter comporre un intero specchio. Sconfitto il demone che lo custodiva, il secondo derviscio guardò nello specchio e trovò la conoscenza profonda. Si stabilì in quel luogo e insegnò per lunghi anni.
I suoi seguaci però non riuscirono ad emulare il maestro nella concentrazione necessaria per rinnovare regolarmente lo specchio che finì per svanire completamente.
Quanto a Se- Qualandar, egli cercò ovunque il Ginn del vortice, ma ovunque andasse lo mancava di poco, perché questi era conosciuto con diversi nomi e allora capitava in luoghi dove non era considerato un Ginn, mentre in altri nessuno lo associava ad un vortice.
Finalmente capitò in un villaggio e chiese, come al solito, agli abitanti se conoscessero del Ginn del Vortice. ”Questo villaggio si chiama vortice”, disse qualcuno.”Non lascerò questo posto fino a che non mi apparirà il Ginn del Vortice”, s’impuntò Se. Colpito dalla sua tenacia il Ginn s’avvicinò vorticando e gli chiese cosa mai volesse. “Cerco la Conoscenza Profonda e mi è stato detto che tu potresti aiutarmi a raggiungerla”. “Certo posso farlo”, rispose. “Dovrai ripetere precisamente una formula, cantare un certo canto e compiere una certa azione evitando di compierne un’ altra. Solo allora raggiungerai la Conoscenza Profonda”.
Il derviscio ringraziò e si mise subito ad attuare il programma indicatogli.
Dopo molti anni riuscì ad eseguire correttamente tutti gli esercizi e le preghiere. Molti lo osservavano e cercavano di imitarlo, tanto era alta la sua reputazione di uomo retto. Allorquando Se raggiunse la Conoscenza Profonda, lasciò un gruppo di devoti che cercarono di perpetuare i suoi metodi. Ovviamente non raggiunsero il medesimo risultato, dato che avevano cominciato laddove si era concluso il ciclo di studi del derviscio.
Tutt’ora ogni volta che qualcuno degli adepti dei tre dervisci s’incontra si sente sempre qualcuno dire: ” Sacrificate un’anguria e sarete aiutati”, altri affermare: ”Guardate a lungo lo specchio e troverete la Conoscenza Profonda”, altri ancora esclamare: “Non esiste altra via che non sia quella di perseverare nello studio, nel praticare certe posizioni, nel recitare certe preghiere…” . In realtà, quando raggiunsero la loro mèta Yak, Do, Se scoprirono allo stesso tempo la loro impossibilità ad aiutare i loro discepoli; così come un uomo portato via dalla marea può vedere un altro uomo sulla riva inseguito da una belva e non poterlo aiutare.
Yak- Do- Se sono nomi che significano rispettivamente: 1- 2- 3.
Questa è una storia- insegnamento del maestro sufi Murat Sahmi ed è databile circa alla fine del 1600.
Come tutte le metafore è “interpretabile”, anche se, originariamente venne letta come una satira della religione.
Dal nostro punto di vista invece, ci potrebbe far riflettere sull’essenza stessa della educazione e del rapporto fra docente- discente, genitore- figlio, maestro- discepolo ecc. ma pure sulle modalità e la necessità di seguire diversi modelli per poter agire proficuamente nella nostra prassi quotidiana.
Ora veniamo all’analisi più dettagliata della breve storia:
i tre dervisci provengono da luoghi distanti (nord-ovest-sud) e convergono in un unico punto. Hanno perciò lo stesso scopo ma sono portatori di identità differenti. Quando decidono di unire le loro forze sono centrati sull’obiettivo ignorando o sottovalutando il punto di vista degli altri; che poi l’obiettivo sia lo stesso diventa un elemento secondario rispetto alla percezione particolare o un mero traguardo da raggiungere per affermare la propria giustezza. Inizialmente sfugge il vero significato della frase fornita loro dall’ “apparizione”: “ esistono tante vie quanto i cuori umani”.
Il primo episodio dell’incontro con la donna che “porta la porta” è poi interpretabile con un assioma, ovvero: ognuno chiede la conferma del proprio limite ed anche: per avvicinare gli altri occorre assecondarli, ma questo, alla lunga non porterà loro giovamento. Anche la tanto desiderata conquista della “verità profonda” da parte del primo derviscio, sancirà la sua diversità dagli altri ( i suoi seguaci ), troppo abbagliati dall’apparenza e dalla superficialità per poter trarre autenticamente beneficio dall’insegnamento.
L’altro episodio, mette immediatamente in evidenza la frammentarietà del sapere; gli sforzi del secondo derviscio nel ricomporre la visione e la successiva dissipazione da parte dei discepoli.
La terza e ultima parabola introduce invece l’elemento dell’equivoco della parola: nessuna, infatti, delle persone incontrate riesce ad associare il nome proprio all’attributo. Attraverso la considerazione del dato parziale, il superamento della rigidità e l’intuizione Se riuscirà raggiungerà l’obiettivo ma, anche qui, tutto svanirà a causa del processo di mera imitazione apportata dai seguaci. Procedimento evidentemente non in grado di comprendere le cause né, tanto meno, di costruire un’empatia fra il maestro e gli allievi, i quali peraltro avrebbero dovuto serbare attenzione non tanto alle procedure ma soprattutto al processo formativo. In altri termini, mentre i maestri “cercano una via” i discepoli seguono la via tracciata dai maestri e ne riproducono i significati. O ancora: è possibile identificare la conoscenza profonda non solo e non tanto nell’acquisizione di una conoscenza non superficiale, bensì nel riuscire a tracciare una strada, la propria strada. In questo senso è intuibile come sia importante il raggiungimento della meta ma ancor di più il percorso svolto.
Sotto questo aspetto i tre dervisci riescono a maturare un’esperienza “estetica” intendendo con ciò il significato originario del termine greco Aisthetikòs ovvero, percezione non esteriore ma sensoriale; quindi non l’apparente bellezza dell’estetista ma sentire, percepire, vivere direttamente.
Quindi in definitiva, adeguarsi passivamente, essere superficiali, imitativi, dividere il sapere, non capire… questi sono i sintomi che riportano a una metaforica torre di babele innalzata dalle potenzialità dei saperi e poi frantumata dalla dispersione, incomprensione, divisione, diffidenza, individualismo. Elementi che determinano una conoscenza per lo più parziale, adesiva e acritica.
L’ARTE E L’INTELLIGENZA DIVERGENTE
Da questa premessa appare intuibile come possa rivelarsi poco utile o addirittura forviante centrare l’attenzione sui cosiddetti modelli. L’aspetto più evidente trasmesso dalla favola di Murat Sahmi è, appunto, la sterilità del definire e poi far seguire pedissequamente dei modelli; sotto questo aspetto quindi, mi sento di eludere il quesito “autorità sì (e di che tipo) – autorità no nel/del rapporto educativo”. Certamente, proseguendo nella trattazione, si accennerà al bisogno di metodo, regola, disciplina, termini però intesi come strumenti e non come modelli.
Del resto, nello stesso mondo dell’arte, entro il quale si dovrebbe concentrare l’apoteosi della creatività, è possibile trovare delle connessioni con questo racconto. La storia dell’arte è stata periodicamente attraversata da innovazioni o rivoluzioni vere e proprie, seguite da consolidamenti e stagnazioni; trasgressioni via via trasformate in scuole, stili in cui riconoscersi, manifestare, acquisire e riprodurre l’apprendimento di abilità codificate. Tutto questo in attesa del successivo artista innovatore e divergente in grado di rimescolare le carte. Naturalmente l’eccezione da attribuire al termine “divergente” è quella data da J. E. Guilford, il quale separava la normale capacità di risolvere problemi consueti in modo standardizzato, anche se utile (intelligenza convergente ) dalla creatività vera e propria che ha a che fare con l’innovazione ( intelligenza divergente ).
Questa “divergenza”, questa capacità di trasgredire la regola non è però sufficiente per definire un’autentica “intelligenza divergente”. Se ciò fosse, basterebbe attingere al grande bacino delle irregolarità comportamentali o del disagio per allestire intere divisioni di “creativi” borderline. Sarebbe solo dis-senso rispetto a quanto esistente precedentemente. Per completare un’alchimia riuscita occorre maturare invece quello che in psicoanalisi viene chiamato “senso di realtà” ovvero quel particolare specchio che riflette una nostra immagine nel mondo, in equilibrio, ad esempio, fra aspettative individuali e regole diffuse. In altri termini occorre anche un’adeguata ( ma non oppressiva ) strutturazione del super-io per poter “diventare grandi”.
Ma anche questo non basta! Sempre prendendo in prestito il lessico analitico occorre equilibrare il “dovere” con il “piacere”, cioè considerare la spinta propulsiva dell’Es, il cosiddetto “principio del piacere” senza il quale non può esserci dinamismo, passione, curiosità, tensione, desiderio. Sotto questo aspetto l’attivazione di processi creativi è molto importante.
Molti dei comportamenti aggressivi, inadeguati, passivi e di chiusura dei bambini/adolescenti/ragazzi, spesso ha radici nella frequentazione di quelle che una volta si chiamavano “cattive compagnie”, intendendo con ciò amicizie ma soprattutto stili di vita, abitudini modalità di rapporto (o di non – rapporto) con l’ altro: l’ altro da sé ma pure “l’altro di sé”, quella parte sconosciuta o, comunque, poco frequentata di noi; “gnothi seautòn”, dicevano i greci: conosci te stesso, secondo le tue possibilità: esistono tante vie quanti i cuori umani…
Ma è pure altrettanto vero che la percezione inadeguata degli altri spesso è frutto di una mancanza o latitanza di personalità e di “senso”; quello che Goethe chiamava “Sinngebung” ovvero: l’ uomo è un essere predisposto alla costruzione di senso. Con “senso” intendiamo la percezione amodale dalla realtà circostante, solo elemento in grado di completare l’aspetto modale, ovvero quell’attribuzione del significato che noi necessariamente attribuiamo alle cose e alle azioni; anzi è quasi sempre il riuscire a dare un senso che riesce a far proprio il significato. In tal “senso” è utile non aderire a modelli preconfezionati, ma prefigurarne in modo plastico e recettivo dei propri. L’esempio di adesione acritica lo possiamo riscontrare nel bullismo dove il ragazzo (il bullo) ha interiorizzato acriticamente dei modelli negativi necessari per una copertura del senso di vuoto con una divisa prevaricante e nichilista. D’altronde il termine stesso “nichilismo” rimanda ad una condizione altrettanto importante di “senso”. Dice Nietzsche: “manca il fine, manca la risposta al perchè. Che cosa significa nichilismo? Che i valori supremi perdono ogni valore”. Allora la risposta individuale, la medicalizzazione degli interventi, l’affidarsi allo specialista rappresenta una tentazione forte ma parziale: “nel deserto dell’insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde, il disagio non è più “psicologico”, ma culturale. E allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire”… (1).
Da quanto detto si può facilmente comprendere quanto siano importanti le pratiche di condivisione, tese a recuperare quella direzione di senso di cui sopra.
Con questo non intendo sminuire l’importanza di avere dei buoni modelli in un percorso di crescita ma, semplicemente, penso che questi non siano sufficienti.
Occorre invece predisporre e cercare di far crescere delle buone modalità di confronto, degli spazi di rispetto, dei veri e propri luoghi aperti, dove poter maturare esperienze anche in grado di tradursi in modelli. Potrebbe trattarsi del “topos” (2) di aristotelica memoria; un luogo comune condiviso, denso di significati universali piuttosto che ritagliato in uno spazio solo attento alla separazione dagli altri.
Sotto questo aspetto l’utilizzo delle modalità espressive tipiche dell’arte terapia consente facilmente di colmare le distanze; di scoprire quanto, in realtà, noi siamo più simili agli altri rispetto a quanto siamo diversi.
(1) Umberto Galimberti “l’ospite inquietante, il nichilismo e i giovani” ed. Feltrinelli (MI)
(2) Aristotele, Fisica: “Sembra essere cosa importante e difficile da afferrare, il topos”
Testi consigliati o utili alla comprensione dell’argomento
- A.A.V.V. (a cura dell’associazione ART THERAPY Italiana) “Quaderni di Arteterapia” Bologna, 1989.
- Arnheim R., Per la salvezza dell’arte, Milano, Feltrinelli, 1992.
- Arnheim R., Intuizione ed intelletto, Milano, Feltrinelli .
- Arnheim R., Arte e Percezione visiva (1974), Torino, Einaudi,1974.
- Bion W.R., Apprendere dall’esperienza, Roma, Ed. Armando, 1998.
- Campbell J., Attività artistiche di gruppo, Trento, Erickson, 1996.
- Casula T., Impara l’arte, Torino, Einaudi, 1974.
- Coppelli C.(a cura di) “ Usa l’arte per non essere in disparte”, Carpi, La Litografica, 2001.
- Coppelli C.(a cura di), “ Attraverso il confine”, Comune di Borgo Valsugana, 2006.
- Hillmann J., Politica di bellezza , Firenze, Moretti e Vitali,1999 .
- La rivista Nuove Arti Terapie , trimestrale, edita dalla Nuova Associazione Europea per le Arti Terapie, Roma ( solo su abbonamento).
- Lowenfeld V., La natura dell’attività creatrice, Firenze, La nuova Italia, 1968.
- Sudres J. L., L’arte terapia con gli adolescenti Magi, Roma, 2000.
- Trivelli- Taverna (a cura di) Arti terapie, i fondamenti , Torino, Tirrenia stampatori .
- Warren B., Artetrapia in educazione e riabilitazione, Erickson Trento, 1996.
- Winnicott D.W., Gioco e realtà, Roma, Armando, 1993.