Esperienza: dall’anima alla terra tra colore e materia

Quando l’arte diventa terapia

di Elisa Pierallini

 

 

 “Nell’atto di creazione di ciascun individuo
l’arte nutre l’anima,coinvolge le emozioni e libera lo spirito,
e questo può incoraggiare le persone a fare qualcosa
semplicemente perché vogliono farlo.
L’arte può motivare tantissimo, poiché ci si riappropria,
materialmente e simbolicamente,
del diritto naturale di produrre un’impronta
che nessun altro potrebbe lasciare
ed attraverso la quale esprimiamo
la scintilla individuale della nostra umanità”
Bernie Warren

“Succede spesso che l’individuo sia l’ultimo a rendersi conto del dramma della propria esistenza. Si meraviglia di fronte alle avventure altrui e non si avvede che anche la sua esistenza gli offre altrettante possibilità”. (Erving Poster)

Ho condotto per circa un anno un gruppo di Arteterapia con pazienti psichiatrici medio-gravi inseriti in un percorso residenziale di una comunità terapeutica nei pressi di Lucca. L’obiettivo iniziale di questo laboratorio era quello di stimolare le potenzialità e le abilità di ogni partecipante che con l’esordio della malattia psichiatrica erano state messe a tacere. In quest’ottica ho costruito gli incontri cercando di mettere sempre in primo piano il concetto di ri-abilitazione come un processo del “tirar fuori le risorse individuali esistenti, ma soffocate”.

La durata di ogni sessione era di circa 2 ore, i partecipanti erano sempre liberi di concludere l’incontro in ogni momento, erano liberi di andarsene e tornare, erano liberi di osservare senza essere protagonisti, erano liberi di scegliere in quale misura entrare in contatto con gli altri e con la materia. Questa modalità è diventata significativa dal primo incontro ed i partecipanti del gruppo hanno iniziato così a percepire le differenze degli altri con se stessi. Negli incontri ho utilizzato principalmente tecniche pittoriche come l’acquarello, il colore acrilico, matite e gessetti, tuttavia quando il gruppo appariva resistente al processo creativo, mi sono servita del linguaggio musicale e della co-costruzione di racconti. Questi mezzi terapeutici, sono stati finalizzati al recupero ed alla crescita della persona nella sfera emotiva, affettiva e relazionale. Il laboratorio diventa così un intervento di aiuto e di sostegno a mediazione non-verbale attraverso l’uso dei materiali artistici.

Il presupposto di base è quello di considerare che il processo creativo, messo in atto nel “fare arte” produce benessere, salute e migliora la qualità della vita. Ogni espressione dell’anima e della propria umanità, che prende forma anche in un solo e semplice segno o un insieme caotico di linee e colori, è manifestazione autentica di un sentire profondo e come tale, ha valore inestimabile. Il “modo di essere nel mondo” si mostra infatti per poter essere, nel processo creativo, portato alla luce, trasformato, compreso, così che l’individuo possa migliorare la relazione con se stesso e con gli altri.

Il laboratorio di arteterapia nasce dall’idea che le emozioni hanno bisogno di uno spazio per essere espresse, accolte e comprese. Ecco quindi che noi creiamo uno spazio, la “tela”, nel quale si ha la possibilità di dar voce alle emozioni soffocate. Durante tutte le sessioni del gruppo ho partecipato “attivamente” dipingendo fianco a fianco con loro; con questa modalità si crea “uno spazio fertile” per la relazione. Il terapeuta diventa così, in alcuni momenti “contenitore sicuro”, dove poter chiedere e dove poter essere accolto, in altri il “compagno di viaggio”, il quale sta nel gruppo sperimentando insieme, ed è proprio l’alternarsi di questa posizione che facilita la costruzione della relazione terapeutica all’interno di un processo creativo.

Quando ho iniziato il laboratorio con il gruppo di Lucca, c’è stato un primo periodo di conoscenza e osservazione, dove ho svolto quella che io chiamo “alfabetizzazione del colore”, in cui insegno come poter miscelare i colori primari per ottenere i colori secondari ed alcune tecniche per stendere il colore. Successivamente ho iniziato a fare esperienza con le loro specifiche abilità.              

F. diagnosticato con disturbo ossessivo- compulsivo temeva fortemente il contatto del suo corpo (anche le mani) con il colore, W. con un disturbo di personalità anti-sociale aveva difficoltà a restare in contatto con sé e con gli altri partecipanti per un tempo prolungato, I. una donna con disturbo di personalità schizzoaffettiva, aveva una forte paura del giudizio degli altri partecipanti, R. un giovane di circa 19 anni, con una diagnosi di schizofrenia aveva un mondo interiore ricco ma caotico, poi c’era M. con una doppia diagnosi di psicosi bipolare e tossicodipendenza. Queste persone ed altre ancora mi hanno permesso di creare un modo di fare arteterapia diverso dalle esperienze passate. Osservando i loro disagi e peculiarità mi sono accorta di dover utilizzare l’arte astratta e non descrittiva perché riuscissero ad andare oltre il giudizio estetico, costruendo così spazi nuovi di espressione, non più “significati“ da dover spiegare, ma emozioni da sperimentare. Per questo mi sono ispirata ad un pittore che amo molto, Jackson Pollock ed al suo modo di dipingere:

“Non dipingo  sul cavalletto. Preferisco fissare le tele sul muro o sul pavimento. Ho bisogno dell’opposizione che mi dà una superficie dura. Sul pavimento mi trovo più a mio agio. Mi sento più vicino al dipinto, quasi come fossi parte di lui, perché in questo modo posso camminarci attorno, lavorarci da tutti e quattro i lati ed essere letteralmente “dentro” al dipinto.Questo modo di procedere è simile a quello dei “Sand painters” Indiani dell’ovest. Quando sono “dentro” i miei quadri, non sono pienamente consapevole di quello che sto facendo. Solo dopo un momento di “presa di coscienza” mi rendo conto di quello che ho realizzato. Non ho paura di fare cambiamenti, di rovinare l’immagine e così via, perché il dipinto vive di vita propria. Io cerco di farla uscire. È solo quando mi capita di perdere il contatto con il dipinto che il risultato è confuso e scadente. Altrimenti c’è una pura armonia, un semplice scambio di dare ed avere e il quadro riesce bene. (Jakcson Pollock)

 

Durante gli incontri abbiamo iniziato, poco alla vota, a dipingere su cartoni da imballaggio, scarti di falegnameria, su lenzuola e su tela. D’inverno appoggiati al pavimento ed in estate in giardino, direttamente in contatto con la terra. La scelta del materiale era importante per i partecipanti; andavamo insieme a reperirlo cosicché per ogni membro del gruppo, il materiale potesse essere più conosciuto e familiare. Ho utilizzato i colori in bottiglia così i partecipanti potevano scegliere se versarlo direttamente, lasciando spessore al colore o utilizzare il pennello. E’ stato interessante notare che con il passare del tempo la scelta dei colori si è modificata. All’inizio utilizzavano maggiormente i colori primari oltre al bianco ed il nero, solo in un secondo momento hanno manifestato l’esigenza di utilizzare le sfumature. Questo passaggio era la conseguenza dei processi relazionali che iniziavano a mettere in atto, infatti era nato l’interesse di sperimentare nuovi modi e “sfumature” per stare in relazione con sé e con il gruppo. Anche la dimensione della base su cui dipingere è stata significativa, mi sono resa conto che i partecipanti sceglievano spesso, dimensioni da 50 cm x 70 cm fino ad un massimo di 2 m x 5 m. Questo spazio, ha facilitato e reso possibile l’espressione di sé e del proprio mondo interiore. Come sostiene J. Zinker: ”La creazione è un processo, non un singolo atto o un’esperienza isolata. Il processo appare con certe caratteristiche legittime che si applicano sia all’emozione della persona sia alla natura intrinseca del suo lavoro. Nel processo del disegno, la persona permette a se stessa di esprimere totalmente la propria eccitazione fino a sentirsi internamente soddisfatta e completa. I suoi disegni mostrano le stesse caratteristiche delle sue emozioni mutevoli: dalla frammentazione alla fluidità, all’interezza. I disegni completi, a parte il loro valore estetico diventano una conferma concreta della sua capacità di diventare un essere umano integrato.”

Un ulteriore passaggio è stato quando ho fatto sperimentare ai partecipanti l’esperienza “del proprio corpo come strumento per dipingere”, ed hanno iniziato ad utilizzare le dita, i gomiti e i piedi. Questa tecnica gli ha permesso di esplorare con una modalità più intima il loro modo di entrare in contatto. Il lavoro ha permesso ad esempio ad M. di fare l’esperienza dell’ essere accolto, quando scegliendo di fare la propria orma, chiese aiuto, appoggiandosi agli altri,per non scivolare. M. ha sperimentato come l’esperienza artistica può diventare, un momento di introspezione, un momento per la condivisione e un momento per creare legami significativi. Dopo questo percorso fatto di incontri, colori e storie raccontate, decisi, insieme a loro, di dare un nome che comprendesse tutte le opere pittoriche che avevano fatto, permettendo così di dare spazio al riconoscimento dell’esistenza dell’altro nella propria avventura.

Dopo qualche riflessione si accordarono per:

”EMOZIONI IN LIBERTA’”,

forse nessuno, prima di loro aveva espresso così chiaramente il senso dell’arteterapia.

Una tela coperta di colore ancora fresco occupava tutto il pavimento. Il silenzio era assoluto. Pollock guardò il quadro, quindi, all’improvviso, prese un barattolo di colore e un pennello e iniziò a muoversi attorno al quadro stesso. Fu come se avesse realizzato di colpo che il lavoro non era ancora finito. I suoi movimenti, lenti all’inizio, diventarono via via più veloci e sempre più simili ad una danza mentre gettava sulla tela i colori. Si dimenticò completamente che Lee ed io eravamo lì; sembrava non sentire minimamente gli scatti della macchina fotografica. Il mio servizio fotografico continuò per tutto il tempo in cui lui dipinse, forse una mezz’ora. In tutto quel tempo Pollock non si fermò mai. Come può una persona mantenere un ritmo così frenetico? Alla fine disse semplicemente: “E’ finito”. »

(Hans Namuth)

 

Dopo circa un anno sono qua a scrivere queste riflessioni.

Dove siamo arrivati?

Quali sono gli obiettivi raggiunti?

Quali abilità hanno ricominciato ad esprimere?

“Ciò che desidero, è che tutto sia circolare e che non ci sia, per così dire, né inizio né fine nella forma, ma che essa dia, invece, l’idea di un insieme armonioso, quello della vita.” Vincent Van Gogh

Dopo quest’esperienza F. entra con gioia e leggerezza in contatto con il colore , l’ultimo dipinto è stato un campo di girasoli in una giornata di sole, inizialmente non utilizzava il colore ma ritagliava il cartone in forme, alla fine riuscì a dipingere il suo quadro con i polpastrelli delle mani, e sorridendo da grande artista alzò lo sguardo solo alla fine dicendo: è finito!. F. è diventato così protagonista del suo fare, sciogliendo lentamente la sua ossessiva paura di qualsiasi tipo di contatto con il mondo esterno;

W. è riuscito a trovare una tecnica personale per dipingere nel tempo che lui ritiene sufficiente per stare tranquillo e nello stesso tempo, essere visto e riconosciuto dagli altri, spruzzava il colore con decisione e forza, a volte questa modalità placava la rabbia, altre volte placava la paura del giudizio, così senza riflettere,in un breve momento, appoggiava un secondo cartone, e rialzandolo trovava ogni volta figure che parlavano di sé; questa esperienza è diventata significativa per lui in quanto adesso ha scoperto il “suo” tempo per stare in relazione ed esistere senza diventare l’aggressore;

R., dopo aver percorso diverse strade è riuscito a dipingere molto del suo mondo interiore, scoprendosi ricco e simpatico anche per gli altri, una volta si dipinse delfino e raccontò che la risata del delfino era simile alla sua, e quando ha bisogno di compagnia si può far sentire; questa nuova consapevolezza gli ha permesso di chiedere sostegno agli altri quando il suo mondo interiore diventava troppo spaventoso.

M. ha trovato un modo per sfogare rabbie antiche, dipingeva spesso sfondi molto scuri e diceva di sentire come il colore lo immergesse nella memoria del suo passato ma successivamente ha scoperto che era possibile dipingere sopra lo sfondo con colori più luminosi e questo poteva simboleggiare il suo presente; ha scoperto così che ogni persona è come “la storia della patata” che nonostante abbia un passato al buio e senza acqua riesce a sopravvivere vedere la luce;

I. oggi, racconta di come gli aspetti caotici della sua personalità possano essere visti dagli altri e da sé “farfalle interiori” piccole vibrazioni in movimento, non più da nascondere ma da svelare con piacere.

Per ogni persona del gruppo, l’arte è stato il veicolo per poter costruire nuove “metafore”, immagini di “come se fossi…..” e ogni volta hanno potuto sperimentare quanto sia liberatorio, riconoscersi e farsi vedere dagli altri.

Io continuo a fare arteterapia perché ci sono ancora molte strade da scoprire, e perché ogni volta che gli altri scoprono e ri-conoscono aspetti di sé ed il loro modo di stare al mondo io mi meraviglio.

 

Elisa Pierallini

Psicologa Specializzata in tecniche a mediazione artistica

 

 BIBLIOGRAFIA

Richard P. Taylor, Caos e regolarità nell’arte di Pollock. Le scienze n. 413, gennaio 2003.

Jackson Pollock, Interviews, Articles, and Reviews. New York: The Museum of Modern Art, 1999. Pepe Karmel ed.

Violet Oaklander, Il gioco che guarisce. La psicoterapia della Gestalt con bambini ed adolescenti, EPC Edizioni Pina Catania,2009

Bernie Warren, Arteterapia in educazione e riabilitazione . Ed. Erickson,2005

Joseseph Zinker, Processi creativi in psicoterapia della Gestalt, Ed. Franco Angeli, 2002

Erving Poster, Ogni vita merita un romanzo, Casa editrice Astrolabio, 1988

 

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