
02 Nov Etnografia e arteterapia
Come direttore del Museo della pietra di Ausonia (FR), una comunità poco distante da Montecassino, ho progettato e condotto insieme ad un’equipe di ricercatrici, tra il 2004 ed il 2007, una ricerca sulla memoria della seconda guerra mondiale nei monti Aurunci.
Che cosa c’entra, potreste chiedervi, un Museo della pietra con la memoria della guerra e, soprattutto, con le artiterapie? Cercherò di rispondere anzitutto alla prima domanda.
Tre mi sembrano, al riguardo, i motivi di questa prima e non evidente relazione. Anzitutto il Museo della pietra (in quanto museo demoetnoantropologico, e non archeologico o naturalistico, come il nome potrebbe far pensare), è per statuto orientato ad una costante attività di ricerca sul territorio ed i suoi patrimoni materiali (la pietra) ed immateriali, tra i quali, appunto, la memoria collettiva o sociale.
Un secondo motivo è legato al fatto che, in quest’aerea del basso Lazio (localmente chiamata la terra del martirologio), la memoria traumatica della guerra è particolarmente viva e conservata per via della dolorosa esperienza delle violenze di genere qui compiute, con particolare accanimento, dalle truppe coloniali berbere (i cosiddetti goumier) appartenenti al corpo di spedizione francese guidato dal Generale Juin.
E’ il dramma portato all’attenzione dell’Italia del dopo-guerra prima da Moravia, con il romanzo La Ciociara (1957), e poi da De Sica con il film omonimo (1960). Ma tranne queste due opere di denuncia e di drammatizzazione, ed un indennizzo economico a suo tempo concesso alle vittime che ne facevano richiesta (le cosiddette “marocchinate”), questa memoria è stata di fatto abbandonata ad un cordoglio nascosto; a celebrazioni ristrette e circoscritte alle diverse comunità martiri, in un silenzio e disinteresse, anche istituzionale, che di fatto non ha consentito una elaborazione del trauma collettivo, gestito dalle comunità con le classiche dinamiche della memoria traumatica, e cioè la censura, la privatizzazione del dolore e della sofferenza, la rimozione ed il risentimento verso la società politica ed i “colpevoli” materiali e morali del crimine (quest’ultimi, individuati soprattutto tra i francesi e gli americani).
Rendere conosciuta e rappresentabile museograficamente questa memoria, darle valore e visibilità, è stata quindi la principale motivazione della ricerca. Contestualmente, la sua realizzazione ha costituito una prima restituzione, etica e cognitiva, nei confronti delle comunità, dei testimoni e delle ricercatrici che hanno trasformato storie e testimonianze a rischio di perdita in pietre della memoria, per usare un’appropriata metafora. La pietra infatti (ed è la terza ragione dell’interesse museale), è il vero genius loci, onnipresente e vigile, che ricorda ed incorpora la guerra e le sue storie in questo territorio. Attraverso statue, lapidi, monumenti, sacrari, memorial e cimiteri militari, diffusi un po’ ovunque; ma anche altre emergenze naturali e culturali come grotte, caselle, cisterne, macere che conservano tracce di vicende note solo a coloro che vivono qui.
Questa memoria incorporata nella pietra voleva emergere, manifestarsi, essere narrata, condivisa.
Questo hanno scoperto, con stupore ed emozione, le sei ricercatrici che al termine di un corso di preparazione si sono impegnate nella campagna di ricerca sul campo. Contro ogni apprensione iniziale sull’indisponibilità o la chiusura delle anziane testimoni a rievocare il dramma vissuto oltre sessant’anni prima, hanno scoperto che queste persone le aspettavano per aprire loro non solo le loro memorie ma anche il loro cuore, come in un incontro (inter-generazionale) da tempo atteso.
La loro straordinaria voglia di narrare, di testimoniare, non si è lasciata intimidire da un registratore; semmai si è preoccupata che qualcosa della loro testimonianza potesse andare perduta (Ma funziona stò coso?). In un anno e mezzo di lavoro le etnografe locali hanno registrato oltre settanta ore di interviste, trascritte fedelmente in dialetto in oltre cinquecento pagine di testo di grande ricchezza narrativa e descrittiva. Storie come pietre, appunto, che attendono adeguate forme di riconoscimento e valorizzazione.
Il Museo della pietra ne ha individuate tre. La prima è un testo etnografico, dedicato ad una riflessione critica e problematica su questa memoria; la seconda è un allestimento museale (la stanza delle “voci della memoria”) dedicato ad una sensibile ed evocativa rappresentazione audio-visuale; la terza – che riguarda più direttamente l’incontro tra etnografia (della memoria) ed arti-terapie- è la creativa elaborazione di tali storie e testimonianze, a lungo consegnate alla censura ed al silenzio, in performances espressive, rappresentazioni artistiche e teatrali.
Il testo (A. Riccio, “Etnografia della memoria. Storie e testimonianze della seconda guerra mondiale nei monti Aurunci”, 2008) ha avviato una prima e necessaria riflessione sulla memoria sociale aurunca in quanto bene culturale. Questo tipo di patrimonio immateriale è oggi al centro di un ampio e rinnovato interesse, come mostra, ad esempio, la recente iniziativa della Banca della Memoria, ideata da un gruppo di ragazzi torinesi (www.bancadellamemoria.it). Si tratta di una vasta raccolta di testimonianze e storie di vita di persone anziane, in forma di filmati brevi (10 minuti), catalogati, inseriti e consultabili in un sito web.
Il progetto, semplice e immediato quanto originale, ha avuto molto successo anche per la paradossale “missione restitutiva” che gli ideatori hanno individuato nel “far riacquistare all’anziano quel ruolo attivo di narratore e trasmettitore di esperienze e saggezza” proprio “attraverso i media che più di tutti hanno contribuito alla disgregazione di questo ruolo: il video, la televisione e internet» (https://www.webnews.it/tutti-a-depositare-nella-banca-della-memoria/).
Il testo sulla memoria della guerra negli Aurunci partecipa proprio di questa sensibilità per il tema della memoria sociale, oggi al centro di un’attenzione interdisciplinare assai vasta (Barbara A. Misztal, Theories of social remembering, 2003, tr. it, Sociologia della memoria, McGraw-Hill, Milano, 2007), ampliandone tuttavia l’orizzonte ben al di là della semplice raccolta di ricordi. Mostra, ad esempio, come questa memoria esibisca proprie forme e dinamiche espressive e cognitive; riveli articolati livelli di relazione con il contesto locale, le stratificazioni storiche e, soprattutto, proponga una autonoma e critica interpretazione della storia (locale) rispetto a quella nazionale. Proprio in quanto strumento riflessivo il libro evidenzia, attraverso concrete testimonianze, l’intreccio tra memoria individuale e memoria collettiva ed il carattere tutto attuale della memoria sociale, fatalmente costruita in funzione del presente più che del passato.
Sono proprio queste interpretazioni ed usi locali ed attuali della guerra, e delle esperienze ad essa associate, l’oggetto di riflessione sul bene della memoria come patrimonio immateriale vivente. Questa vita sociale dei ricordi chiedeva di emergere e di essere portata a conoscenza delle generazioni più giovani; un mandato implicito raccolto dall’etnografia attraverso il “lavoro d’ascolto” (prossimo a quello terapeutico) delle nipoti delle testimoni, sessant’anni dopo.
Una seconda forma di valorizzazione sarà, naturalmente, di tipo museografico. Prevede l’allestimento (evocativo ed artistico) di un apposito spazio espositivo presso il Museo della Pietra (la stanza delle voci della memoria), in cui rappresentare il dramma degli Aurunci, attraverso il filo narrativo della pietra. L’allestimento tradurrà la letteratura del ricordo, raccolta dalle ricercatrici locali, in comunicazione museale che si avvale della parola (e della pietra) per trasmettere al visitatore le testimonianze attraverso voci di interpreti espressivi e simpatetici locali. Selezioni di racconti e ricordi, in dialetto comprensibile (tradotti anche in lingua inglese e tedesca), verranno diffusi in un raccolto ambiente da apparati acustici e audio-visuali, inseriti nei muri o in oggetti, per comunicare al pubblico i ricordi, le esperienze, le emozioni ed i vissuti della guerra. Come il senso di stupore verso un’esperienza terribile, imprevista ed ingiusta, di apocalisse culturale (come l’ha chiamata Pietro Clemente, 2005:49-60), espressa dai testimoni con modi di dire quali: “stava a finì il mondo, era la “finizione dello mundo”, o con descrizioni efficaci (sopra a Montecassino buttarono 500 tonnellate di bombe, la fecero nà pianura).
Espressioni non meno forti rievocheranno l’esperienza dell’esilio: lo sradicamento di interi paesi e gruppi familiari deportati in campi di concentramento lontani, o dispersi in montagna alla ricerca di un rifugio (“simo stati sfollati, sempre sfollati, co’ chelle mappatelle n’capu”; “ simo scappati in montagna pecchè, non ci viene la guerra in montagna, no?”).
Le voci narranti trasmetteranno al visitatore l’esperienza di una popolazione trovatasi in pieno fronte: tra la linea Gustav, la fortificazione delle montagne eretta dai tedeschi e l’offensiva alleata, a lungo e vanamente scatenata contro questo baluardo di pietra, finché alla fine, dirà la voce di una testimone con amara concisione, “hanno dovuto lanciare i marocchini per sfondà stò fronte”.
La stanza delle voci darà espressione evocativa anche alle drammatiche testimonianze delle donne violentate dalle truppe di colore, i goumiers marocchini provenienti dalle montagne dell’Atlante, ed impiegati in questo territorio proprio per la loro familiarità “etnica” con montagne e pietre ( “perché gli americani dicevano: – E chi ce va n’coppa à stè montagne? E allora ficero venì ‘sti cosi niri”).
E che, in compenso del loro sacrificio (oltre cinquemila morirono nell’assalto) ebbero, secondo una diffusa interpretazione, “carta bianca” ; cioè il permesso di predare sull’intera popolazione civile, secondo la consuetudine berbera della razzia; e ‘fecero strage’ in tutto il frusinate e, in modo particolarmente accanito, negli Aurunci.
La “cultura del terrore” dei goumier (Michael Taussig, “Cultura del terrore, spazio della morte” in: Fabio Dei (a cura di), Antropologia della violenza, Meltemi, Roma, 2005b), evocata in forme inquietanti e drammatiche (“gli massacri c’hanno fatto!!! femmene, omini!! Hanno distrutto gliu munno là n’coppa!!”), sarà rievocata dalle voci delle testimoni come una violenza rimasta a tutt’oggi sconosciuta ed incomprensibile, tra furia disumana ed animale ed oscura violenza di tipo etnico-religiosa (il “pericolo islamico”).
A tali inaudite violenze, contro donne, uomini e persino animali, la gente degli Aurunci, prima attonita e sorpresa, reagì ancora una volta usando la pietra e le risorse naturali del territorio: nascondendosi in grotte, inghiottitoi sotterranei, sotto macere, dentro cisterne; persino murando vive le ragazze in nicchie del muro. Ma la violenza che tuttavia venne consumata restava, e bisognava tenerla dentro per tutta la vita, ed anche se non era una colpa “la dignità – dice una testimone – non ce l’avevi più”. In questo universo di dolore e di colpa immeritata, non manca la forza straordinaria del miracoloso e dell’amore. Tra le voci narranti ecco le testimonianze del miracoloso e dello straordinario, come quelle sulla statua della Madonna del Piano che – secondo una leggenda locale – durante la guerra “ha chiuso gli occhi” di fronte quell’orrore, senza tuttavia far mancare la sua protezione (“No lo saccio come me so salvata, ecco proprio la Madonna m’ha salvata!” ).
La terza forma di valorizzazione e promozione culturale di questo ampio materiale etnografico è di tipo espressivo-drammaturgico, e tocca da vicino il rapporto istituito dal museo con le artiterapie. Questo rapporto si è sviluppato attraverso un corso di “didattica della memoria” tenuto ad Ausonia, nella primavera scorsa, da chi scrive (per la parte etnografica) e da Silvia Auditori e Marika Massara per il modulo arte-terapeutico.
Nell’ambito di questa esperienza si è sviluppata la domanda (implicita) delle etnografe locali di dare espressione ai vissuti dolorosi ai quali sono state esposte nel contatto con la memoria traumatica, in una sorta di auto-terapia (o di poetica dello sciamanesimo, in termini più antropologici), attraverso forme espressive di tipo teatrale e drammaturgico.
Questa prima forma di elaborazione e superamento (artistico) del trauma ha trovato manifestazione dapprima in una performance, registrata ed elaborata in un video curato da Silvia Adiutori e Marika Massara ( “Raccontare con l’arte, l’arte di raccontare”, Ausonia, maggio 2008), e successivamente in una rappresentazione pubblica, tenutasi il 27 settembre all’Auditorium Comunale di Ausonia, nella forma di Reading della memoria, intitolato “Storie come Pietre”, ed organizzato da chi scrive con la collaborazione tecnica di Vittorio Piccolino. In un set semplice ma suggestivo, composto dal leggio e dalla luce che l’illuminava, incorniciato dalle mura in pietra di una ex chiesa, Rosa Nardone, una sensibile ed appassionata artista locale che ha partecipato anche al modulo di arteterapia, ha dato interpretazione espressiva alla memoria degli Aurunci, alternata alla voce narrante di Domenico Petronio. Sono state recitati venticinque brani narrativi, tratti dalle storie e testimonianze raccolte, in forme brevi ed incisive ma di forte suggestione emotiva ed evocativa, a partire dal primo brano, Quella cannonata ammazzò cinque persone, che ha aperto il reading evocando il clima della guerra e la sua terribile distruzione. Accompagnata da un suggestivo commento musicale che legava i diversi temi narrativi, Rosa Nardone ha sviluppato la sua interpretazione con storie di perdita e di lutto (e po’ è morta mama e ì’ so cresciuta all’avventura; Morivi insieme a issi; Chi ti consola?); ricordi di doloroso smarrimento (“Nui, che vita amo fatto?”) e di violenze estreme (l’hanno tenuta due giorni rinto na culla de prètre; Po’ m’hanno pigliata le truppe de colore, nsò potuta scappà più), oppure di esilio e di sfollamento in montagna (ci simo rifugiati tutti rinto quella grotta; A Fammera ci stavano quattromila persone!).
La raccomandazione di un’anziana testimone (Vui tenite a raccontà ai figli vostri…), ha ricordato il “dovere della memoria”. L’ultima storia interpretata da Rosa Nardone è stata la testimonianza di Elena, dedicata al marito perduto (Nce stà niente chiù forte dell’amore, manco lo ferro); l’unica recitata per intero e che ha chiuso la serata, mostrando come la memoria possa essere anche un atto d’amore, più forte della guerra stessa, ed una testimonianza che impegna tutti ad una responsabilità anche personale. Il reading è stato seguito con commossa partecipazione dal pubblico; tra di esso, la presenza di un bambino, attento e partecipe, mi è sembrata di buon auspicio per la trasmissione del bene del ri-cordare (anche etimologicamente legato al cuore), rinnovato grazie al mixing virtuoso tra arteterapia e storytelling.
Il recupero di questa antica risorsa popolare (folkart), grazie all’incontro con le artiterapie, costituisce un buon esempio di sinergia virtuosa per trasformare, come scrive Fabio Dei, un cattivo passato in valore (2005b:53) e dare (nuovo) senso e significato al presente ed al futuro; per non dimenticare senza tuttavia indulgere all’amarezza del risentimento.
Antonio Riccio, Etnoantropologo
Bibliografia
Clemente, P., “ Ritorno dall’apocalisse”, in : P. Clemente e F. Dei (a cura di)
“Poetiche e politiche del ricordo. Memoria pubblica delle stragi neofasciste in Toscana”, Carocci editore, 2005
Dei, F., “Introduzione” in: Antropologia della violenza, Meltemi, Roma, 2005
Misztal, B. A., Theories of social remembering, 2003, tr. it, Sociologia della memoria, McGraw-Hill, Milano, 2007
Riccio, A., “Etnografia della memoria. Storie e testimonianze della seconda guerra mondiale nei monti Aurunci”, Kappa, Roma, 2008
Schultz, E.; Lavenda, R., Antropologia Culturale, Zanichelli, Bologna, 1999
Taussig, M., “Cultura del terrore, spazio della morte”in: Fabio Dei (a cura di)
Antropologia della violenza, Meltemi, Roma, 2005