
17 Mag Forme fluide e luoghi inesplorati
di Carlo Coppelli
Guardare il fiume che è di tempo e acqua e pensare
che il tempo è un altro fiume,saper che ci
perdiamo come il fiume e che passano i volti come l’acqua.
…….
Talora nelle grigie sere un volto ci guarda
dal profondo d’uno specchio;l’arte deve essere
come quello specchio che ci rivela il nostro stesso volto.
J.L.Borges” Le regret d’Héraclite”
Scorrere, percorrere, guardare, navigare, nuotare, arginare … sono azioni che rimandano inevitabilmente ad una sensibilità del mondo molto più antropologica che psicologica.
“La metafora scorre sul fiume”, si potrebbe parafrasare, in quanto questo è uno degli elementi più ricorrenti nella storia dell’uomo. Basti pensare all’identità fluviale delle religioni, soprattutto nei riti della nascita e della morte.
Il fiume è acqua e l’acqua è vita. Tutte le grandi città antiche (e le grandi civiltà corrispondenti) sono sorte nei pressi di un fiume. Riusciremmo ad immaginarci Torino senza il Po, Verona senza l’Adige, Firenze senza l’Arno o Roma senza il Tevere? La rappresentazione della “città ideale” dei pittori e dei pensatori del Rinascimento prevedeva esplicitamente la presenza di un corso d’acqua significativo e ben descritto (Fig. 1)
Ma di questo ne parleremo in seguito …
Fig.1 Raffaello: Ritratto di Federico da Montefeltro
Presumibilmente, la natura essenzialmente vitale dell’acqua ha spinto l’uomo ad attribuire al fiume significati universali e a riconoscere in esso un autentico archetipo.
L’acqua è versatile ma pure ambigua, perché si adegua a qualsiasi contenitore e si relaziona con gli altri elementi a volte in modo armonico, altre in modo conflittuale.
E’ un forte conduttore non solo di elettricità ma di umori, credenze, paure e speranze. In ciò rappresenta un buon contenitore delle nostre interpretazioni proiettive. Forse non è un caso che il termine “sublimazione” venga utilizzato sia in fisica che in psicologia, intendendo comunque un processo di trasformazione: nel primo caso, la capacità di modificazione dell’acqua da uno stato liquido in uno gassoso e, nel secondo caso, il passaggio da un obiettivo pulsionale ad un altro maggiormente accettabile, in modo compensativo.
Nell’ampia produzione iconografica dei laboratori di arte terapia la rappresentazione dell’acqua (sottoforma di fiume e, soprattutto di mare) non solo è presente, ma assai frequente; in genere allusiva di un percorso comunque di cambiamento che procede dalla superficie al profondo, dall’apparente all’immanente, dal riconoscibile (ma risaputo…) all’irriconoscibile, all’indistinto; in altri termini, un piccolo secchio sollevato dal pozzo scuro dell’inconscio. Un po’ come le luci riflesse sull’acqua nella rappresentazione del Rodano dipinta da Van Gogh, in cui il cielo e il fiume sembrano affiorare dall’indistinto blu scuro della notte attraverso l’illuminazione di case e stelle (Fig. 2).
Fig.2 Van Gogh: La notte stellata sul Rodano
Un differente modo di passare da un’affermazione del proprio ego ad una domanda più impegnativa sulla propria effettiva identità. D’altronde noi tutti ci siamo sviluppati avvolti da un liquido e la nascita stessa può considerarsi come l’affioramento dal corpo generante a quello generato, da un’identità indistinta ad una propria.
“La vita è un fiume che scorre”. Affermazione che potrebbe sembrare un luogo comune, parimenti ad amenità quali: “E una ruota che gira” o “E’ una scala: c’è chi scende, c’è chi sale”. Sarebbe, invero, interessante ricostruire le motivazioni (il più delle volte difensive) che spingono all’elaborazione e fissazione di quei processi mentali registrati sull’aspetto superficiale delle cose. Occorre, quindi, far sì che questo scorrimento possa proseguire avvicinandoci, in questa navigazione, a situazioni molto diverse e, speriamo impreviste.
L’archetipo – fiume – , come si è detto, sembra essere un buon soggetto delle nostre fantasie insabbiate: un’immagine mnemonica, tanto potenzialmente suggestiva quanto, in concreto, banalizzata. Difatti a volte la nostra memoria ci rimanda l’immagine di un fiume che non corrisponde esattamente alla realtà. Magari ci immaginiamo una linea sinuosa, placida, attraversata da una corrente costante, in grado di condurre il flusso infinito d’acqua dolce verso il suo naturale destino: il mare. Un vissuto che il francese G. Bachelard esprime molto bene, provenendo lui stesso da una terra di grandi e placidi fiumi: “E’ vicino all’acqua che ho meglio compreso che il fantasticare è un universo in espansione, un soffio di odori che fuoriesce dalle cose per mezzo di una persona che sogna. Se voglio studiare la vita delle immagini dell’acqua, mi occorre quindi riconoscere il loro ruolo dominante nel fiume e nelle fonti del mio paese. Io sono nato in un paese di ruscelli e di fiumi, in un angolo della Champagne vallonea, nella Vallage, così chiamata a causa del gran numero dei suoi avvallamenti. La più bella delle dimore sarebbe per me nel fosso di una vallata, al bordo di un’acqua viva, nell’ombra corta dei salici e dei vimini”.[1]
Una visione scorrevole e contemplativa ben rappresentata artisticamente dal paesaggismo in genere e dall’impressionismo pittorico in particolare (Fig. 3-4).
Ma pure un contenitore di riflessioni, in tutti i sensi, in cui lo sdoppiamento dell’immagine oltre il livello dell’acqua potrebbe ben simboleggiare una doppia visione della realtà, di cui una rovesciata, consentendo pure il completamento formale:
l’arco del ponte quindi, grazie allo sdoppiamento d’immagine, completa un cerchio che diviene il vero obiettivo prospettico (Fig. 5-6).
Diversamente dall’immagine riflessa di Narciso nello specchio d’acqua, così esplicitamente riconducibile alla condizione dell’appagamento fine a se stesso (Fig. 7).
Fig.7 Michelangelo Merisi detto Il Caravaggio: Narciso
Un altro punto di vista è quello relativo alle differenti modalità d’uso del fiume; ad esempio da elemento di scorrimento ad ostacolo da attraversare: la longitudine del percorso, dalla sorgente alla foce, può divenire perciò la trasversalità di un guado o di un ponte (Fig. 8-9).
Attraversamento certo non semplice, se pensiamo che “essere dall’altra sponda” è sinonimo da sempre di diversità. Basti pensare quanto abbia influito nella definizione dei confini tra stati diversi la presenza di un ostacolo naturale ed inequivocabile come il fiume. Il Piave che mormorava calmo e placido al passaggio o l’Isonzo di Ungaretti (L’Isonzo scorrendo/Mi levigava/Come un suo sasso/Ho tirato su/Le mie quattro ossa/E me ne sono andato/Come un acrobata/Sull’acqua/Mi sono accoccolato/Vicino ai miei panni/Sudici di guerra/E come un beduino/Mi sono chinato a ricevere/Il sole/Questo è l’Isonzo/E qui meglio/Mi sono riconosciuto/Una docile fibra/Dell’universo) è lo stesso che assisterà, imperturbabile, ad una delle più grandi carneficine del 1900; le acque trasparenti e vitali saranno le stesse che si bagneranno, da lì a poco, del sangue dei fanti. Però l’attraversamento è pure sinonimo di coraggio, soprattutto quando il ponte è instabile o solo una passerella, o quando nessun passaggio si presenta e occorre affrontare le acque; ovvero, il saper prendere delle decisioni e responsabilità, rifuggendo dal timore, dall’inezia e dalla passività.
Sempre dalla sorgente alla foce, la vita del fiume (come la vita dell’uomo) sarà incredibilmente varia e assai poco lineare nei diversi passaggi modificando colori, dimensioni, velocità. Soprattutto nella sua fase torrentizia o iniziale, il percorso di un fiume potrà essere invece, assai tortuoso, talmente accidentato da essere impercorribile per lunghi tratti, con rapide, ostacoli mobili, rocce affioranti e non, cascate, per farsi poi (magari dopo poco) calmo e navigabile. Analogamente l’apparenza potrà ingannare: vortici, correnti fredde, mulinelli sono insidie ricorrenti e a volte mortali (Fig. 10).
Fig.10 Corsica Fig.11 W.Turner: Il passo del Gottardo
Occorre affrontare, allora, l’imprevedibilità del percorso, magari a volte, cercando di capirlo ed assecondarlo, piuttosto che cercare di abbattere gli ostacoli. I ripetuti tentativi d’imbrigliare la forza del torrente attraverso la cementificazione degli argini, storicamente si è rivelata controproducente: l’energia delle onde di piena in questo caso sarà certamente più devastante rispetto alla capacità di assorbimento idrico costituita dalla presenza di ostacoli naturali come alberi e arbusti.
Analogamente, la volontà di canalizzare (imbrigliare?) le emozioni attraverso rigide norme comportamentali, potrà, invece, riservare la sorpresa di vedersi sommersi da tracimazioni e inondazioni non previste; così come una spinta troppo autocentrata ed affermativa potrà rivelarsi dolorosamente improduttiva.
Come spesso accade, l’arte ha previsto e rappresentato tutto questo: contrapposta alla visione a suo modo positivista del pittore impressionista, attento ai giochi di riflessione e rifrazione della luce nell’acqua e alla mescolanza ottica, potremmo giustapporre quella del romanticismo pittorico, con una natura comunque maldisposta a farsi dominare dall’umana supponenza (Fig. 11). In altri termini, una sensibilità emotiva poco disposta a lasciarsi controllare dalla tecnica.
Un ulteriore elemento d’analisi, in grado di sollecitare e sviluppare approfondimenti e perciò, magari, di limitare le banalità discorsive, si può ricondurre al bacino fluviale inteso sia come contenitore che come contenuto.
Al di là delle schematizzazioni culturali tendenti a contrapporre il senso del “pieno occidentale” al senso del “vuoto orientale”, indubbiamente è possibile pescare metafore, analogie, allusioni, allegorie, finanche dei vecchi scarponi dagli eventi ciclici del fiume e dai suoi ripetuti cambiamenti reiterati nel tempo. Potremmo perciò soffermarci alla cosiddetta dimensione del vuoto, ammirando il percorso scavato dalle acque del Colorado nel Gran Canyon: un vuoto spettacolare è altamente rievocativo, insomma, “immaginativo” entro il quale depositare e far rivivere la dimensione del tempo passato (Fig. 12).
Viceversa potremmo preoccuparci del “pieno” incombente, straripante di una inondazione parlando poi, magari un po’ stupidamente, di “natura assassina”. O ancora, rimuovere come realtà lontana, un altro “pieno”, questa volta non naturale ma mortalmente antropico del Citarum River, nei pressi di Jakarta, giudicato il più inquinato al mondo. Contenitore a sua volta di altri contenitori ormai inutili che trascina inevitabilmente a valle; apoteosi della società del superfluo, tangibile documentazione vivente della pericolosità dei nostri attuali modelli di sviluppo (Fig. 13-14).
Il fiume come teatro del ciclo dell’acqua diviene la catena di montaggio dell’inutile e dell’inutilizzabile: la dimensione circolare si riduce ad una dimensione rettilinea innaturale.
A questo punto ci si può ricordare della legge della termodinamica: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, per comprendere quanto la “linearità” sia nemica della trasformazione. Messaggio controcorrente considerando invece che tutta la nostra vita attuale si riconduce al modello rettilineo: le diverse fasi della vita, il percorso scolastico, la carriera lavorativa, l’accumulo e sperpero (conoscenze, oggetti, relazioni) di cose e persone. La dimensione circolare del tempo e dello spazio dell’artigiano e soprattutto del contadino, diviene un ricordo arcaico da conservare in qualche museo etnografico, ma certamente non un modello da riconsiderare.
Un processo di metamorfosi, quindi, alla stregua di questa famosa incisione di Escher, nella metamorfosi da un fiume chiaro a uno scuro così curiosamente analoga al paesaggio di sfondo della Gioconda leonardesca, nella giustapposizione fiume/strada, rileggibile pure come dualità natura/uomo o come metaforici luoghi di passaggio (Fig. 15-16).
Fig.15 M.C. Escher: La metamorfosi Fig. 16
Quali conclusioni si possono trarre da questa sommaria relazione?
Abbiamo visto come il fiume, possa essere inteso come una rappresentazione non limitata all’oggetto rappresentato: un vero e proprio “pattern” figurativo. Mentre dal punto di vista simbolico possa intendersi come una forma ricorrente ed altamente metaforica.
Si è considerato come la lettura interpretativa sia tutt’altro che lineare e possa intendersi come una universale riflessione sulla condizione umana. Seguendo una visione intrapsichica e terapeutica, è possibile ricondurre questa raffigurazione alla presenza di un processo di trasformazione.
Infine, si è enfatizzato il fiume come “contenitore”.
Dalla Gioconda, ultimo quadro analizzato, inevitabile, quindi, ritornare alle citazioni rinascimentali analizzando due ultimi dipinti di questo periodo: “il sogno del cavaliere” di Raffaello Sanzio e “la torre di Babele” di Pieter Bruegel il vecchio; entrambe le immagini paradigmatiche del fiume inteso come scelta e come ideale.
Nel “Sogno del cavaliere” dipinto da Raffaello nei primi anni del 1500 (Fig. 17), appaiono ben rappresentati i contenuti di quella moralità neoplatonica tipica del periodo ed enfatizzati in particolare nella corte di Urbino. Il dipinto è di dimensioni minime (17×17). Sappiamo che le opere di piccole dimensioni non erano fatte su commissione, ma rappresentavano una tappa specifica di esplorazione delle tre dimensioni da parte dell’artista. Qui comincia a caratterizzarsi quella che sarà la sua grande arte con la presenza degli elementi di fondo che la distinguono: il richiamo allegorico, la grazia delle figure umane e la profondità del paesaggio. Ma vediamo come la stessa immagine possa essere commentata da due osservatori diversi: uno legato alla storia dell’arte e l’altro alla psicoanalisi.
“Le due figure che vegliano il cavaliere addormentato sono Minerva, simbolo delle superiori dignità e Venere, simbolo delle glorie e dei piaceri terrestri. Esse si propongono al cavaliere, il quale dovrà scegliere quale delle offerte seguire: la prima, che presuppone faticoso ed arduo cammino e porta alle cime di un alto colle, simbolo di elevata e rara virtù; oppure la seconda di più felice e serena percorrenza.
Entrambe, peraltro, sfociano poi in una serenità di colline che si perdono nell’infinito.
Le figure rappresentano, nella loro aggraziata bellezza, l’ideale perfezione classica che vuol essere, più che un segno di distinzione estetica, un rimando alla compiutezza anche etica ed interiore dell’uomo, in perfetta integrazione con quella fisica e visibile. (A.C.Quintavalle)
“L’individuo che scende da cavallo (la dimensione degli istinti e delle pulsioni governate dalla libido) e si addormenta” sulla propria sella (la coscienza di sé) entra in contatto con le dimensioni interiori e cioè con il subconscio (l’albero di ulivo), l’inconscio (l’alloro) e l’iperconscio (la palma). Ciò può avvenire in uno stato di “assenza dell’Io” che avviene spontaneamente nello stato di sonno (sogni), di meditazione (le visioni) o di contemplazione delle immagini sacre (i piani di coscienza). Il cavaliere di Raffaello, libero dai bisogni carnali e psichici, si addormenta sotto un albero di alloro ed entra in uno stato in cui è consapevole di essere un’entità diversa dal corpo, poiché, come in meditazione profonda, sente di essere vigile (la coscienza) all’interno di un involucro di materia. In questo stato di liberazione dalla pesantezza dei bisogni, il cavaliere entra nella dimensione inconscia in cui domina il principio della virtù (la donna di sinistra con il libro e lo scettro) e della voluptate (la donna che porge i fiori bianchi).(M.Breuning)
Fig.17 Raffaello S.: il sogno del cavaliere
Queste frasi, sul medesimo oggetto d’attenzione, prese da internet, possono apparire un confronto poco armonico fra due differenti visuali: una lettura dei simboli di tipo iconologico, più attenta alla ricostruzione della simbologia collettiva dell’epoca ed una culturalmente legata ad una visione più contemporanea di tipo individuale, con un ardito gusto interpretativo che si potrebbe definire, con un neologismo, di tipo “iper/postfreudiano”. Un accostamento che, necessariamente, pone dei problemi al lettore. Spesso, linguaggi così diversi appaiono inconciliabili, o, quantomeno, predisposti ad uno scarso dialogo. In realtà, è del tutto legittimo avvicinarsi ad un opera così distante nel tempo da noi, con un ottica contemporanea; così come è decisamente auspicabile una conoscenza non improvvisata dell’opera, conoscenza che sappia limitare l’azzardo interpretativo. In altri termini, occorre un ”dialogo” fra le diverse conoscenze, che sappia confrontare e soprattutto, considerare i denominatori comuni fra i differenti linguaggi.
Questo è tanto più possibile quanto la capacità di produrre ideali comuni sia attiva ed accettata. In fin dei conti, entrambe le letture riconducono l’immagine al problema della scelta del cavaliere (in cui l’osservatore può facilmente identificarsi), fra natura e cultura, fra piacere e studio, appagamento e ricerca, suggerendo, nel contempo, la soluzione dell’armonia fra gli opposti e non della loro contrapposizione; tutti temi che facilmente coinvolgono ciascuno di noi.
La necessità di ricucire lo spezzettamento, di ottenere la ricomposizione dalla frantumazione è l’obiettivo sicuramente di tutte quelle terapie espressive che si basano sull’immagine, come in particolare, l’arte terapia, ma, forse, è l’obiettivo dell’arte stessa e della capacità dell’uomo di produrre un linguaggio simbolico e perciò, universale.
Allora occorre rivalutare la metafora della Torre di Babele: l’arroganza e supponenza del genere umano viene punita da Dio dalla ipertrofia del linguaggio, dalla sua moltiplicazione e dalla conseguente crescita esponenziale del caos, inteso come “incomprensione”.
La torre , perciò, ben lungi da superare il cielo, imploderà miseramente.
Qualcuno in tutto questo ha individuato il ripetersi continuo della storia, nella distruzione delle Torri gemelle di New York. Ciò può apparire azzardato, per certi aspetti, anche se le suggestioni analogiche potrebbero essere un buon elemento di riflessione.
Comunque, ci rimane l’immagine di P.Brueghel (Fig. 18), dell’imponente ed irrisolta costruzione, destinata al fallimento, sotto lo sguardo imperturbabile del grande fiume: panta rei os potamòs.
Fig.18 P. Bruegel il vecchio: La torre di Babele
Carlo Coppelli Arte terapeuta –
G.Bachelard, La formation de l’espirit scientifique,pag14, Libraire Philosophique J. Vrin 1970