Fototerapia - Fotografia Futurista

Il potere terapeutico della fotografia nella produzione artistica della prima metà del ‘900

di Giada Carraro

Umberto Boccioni

Fig. 2 – U. Boccioni, Io-Noi-Boccioni, 1907-10.

Dagli anni Settanta del Novecento nell’ambito dell’Arteterapia si è iniziato a parlare anche di FotoTerapia, permettendo d’individuare diversi punti di tangenza tra il modo in cui la fotografia veniva usata dai terapeuti e l’uso che invece ne facevano già da tempo gli artisti. In effetti, nel corso del Novecento gli artisti visivi si sono impossessati sempre di più della macchina fotografica, usandola come strumento di produzione estetica e sfruttandone, anche se inconsapevolmente, le potenzialità terapeutiche, tanto da trasformarla in un mezzo d’indagine esistenziale.

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Fig. 1 E. Schiele, Senza Titolo, 1914.  Acquerello su stampa di A. Trcka

Inoltre, è stato proprio S. Freud ad aver definito gli artisti i veri scopritori dell’inconscio[1] e non è un caso se i protagonisti delle Avanguardie e delle Neoavanguardie, grazie all’identità concettuale della fotografia e alle loro capacità d’introspezione psicologica, sono riusciti ad esprimere quei conflitti psichici complessi e presenti in ogni individuo.

Il primo artista che sembra aver usato la fotografia in questi termini è E. Schiele, uno dei protagonisti della stessa Vienna fin de siècle in cui si è formato S. Freud. Nella fotografia Senza Titolo (fig. 1) del 1914, scattata da A. J. Trcka, appare in una posa enigmatica[2]: è di profilo, con le mani intrecciate sopra la testa e lo sguardo fisso di fronte a lui, evitando così di guardare l’obiettivo. Si ha quasi l’impressione che E. Schiele stia cercando di sottrarsi al potere esercitato dalla macchina fotografica, che pare temere veramente, forse perché era consapevole della sua capacità di portare allo scoperto i contenuti dell’inconscio, dei quali qui sembra essere vittima. Da notare è anche la chiusura del corpo, che gli impedisce di entrare in relazione con quanto lo circonda e questo senso di costrizione viene ribadito dai segni di contorno tracciati con l’acquerello, che gli impediscono perfino di muoversi liberamente nello spazio. Inoltre le sue braccia alzate focalizzano l’attenzione del fruitore proprio sulla testa, che è il luogo in cui dimorano quei conflitti psichici che sembrano essere i veri protagonisti sia di questa immagine sia di quelle in cui compare nell’atto di fare delle smorfie, definite da Lea Vergine un «atto apotropaico arcaico, che mira a respingere, a ricacciare le forze malefiche o a esercitare un controllo su di esse»[3].

Molto probabilmente è per effetto degli stessi conflitti che U. Boccioni, in una fase ancora prefuturista, ha realizzato l’opera fotografica Io-Noi-Boccioni (fig. 2), nella quale grazie ad un abile gioco di specchi è riuscito a quintuplicare la propria immagine, apparendo una sola volta di spalle ma due volte sia di profilo che frontalmente. In un secondo momento è intervenuto anche con la scrittura, tracciando il pronome «io» sul lato superiore e in corrispondenza con quel Boccioni colto nell’atto di specchiarsi e sul quale ha posto la propria firma, mentre sul lato destro c’è un «noi» che allude ad una fusione avvenuta tra lui e i suoi Doppi, rappresentanti magari i suoi vari stati d’animo. È come se l’Io boccioniano avesse scoperto i suoi alter ego grazie allo specchio, riuscendo però ad integrarli in sé solo attraverso la fotografia. Tale fusione diviene esplicita nei fotodinamismi futuristi, dove le singole immagini si sovrappongono in una visione simultanea, creando – come dicono Marinetti e Tato nel manifesto La fotografia futurista (1931) – una «composizione organica dei diversi stati d’animo di una persona mediante l’espressione intensificata delle più tipiche parti del suo corpo»[4]. Un esempio è la Fotodinamica di U. Boccioni realizzata da G. Bisi combinando due scatti frontali e tre di profilo[5]. In seguito entrambe le operazioni sono state imitate da M. Duchamp, il padre del concettualismo, che in Marcel Duchamp, autour d’une table ha anch’egli moltiplicato per cinque la propria immagine, mentre nella fotografia Marcel Duchamp, prodotta da V. Obsatz nel 1953, appare in due visuali diverse che però sono state sovrapposte. Quindi si vedono contemporaneamente un Duchamp che guarda direttamente l’obiettivo, sorridendo felice, e un altro Duchamp posto invece di profilo, in modo da sottrarsi al potere del fotografo[6].

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Fig. 3 – H. Höch, Autoritratto, 1927 ca.

Anche Hannah Höch, l’unica esponente femminile del dadaismo tedesco, si è fatta riprendere in compagnia del suo Doppio. Nell’Autoritratto (fig. 3) del 1927 la si vede in una posizione simile a quella di Duchamp, cioè di profilo, evitando di guardare l’apparecchio fotografico, forse temuto, ma nella seconda traccia fotografica ha trovato invece il coraggio di guardarlo e sembra quasi sfidarlo. In un certo senso da un lato c’è quell’Io remissivo, incapace perfino di fronteggiare il carattere forte dei suoi compagni (prima R. Hausmann e poi T. Brugman), ma dall’altro lato c’è appunto l’Altro, sufficientemente temerario, e la fotografia ne testimonia l’esistenza. Proprio come avviene nel successivo Autoritratto con incrinatura, nel quale la Höch compare in posizione arretrata, con lo sguardo rivolto verso destra, e alle sue spalle si vede una cornice che sembra contenerla. Ma a un certo punto il suo Doppio avanza, si proietta verso il primo piano e volge lo sguardo verso sinistra, sempre evitando di guardare la macchina fotografica che però deve aver visto durante la rotazione degli occhi. Curiosa è l’incrinatura che attraversa l’immagine tagliando trasversalmente il volto della Höch, ribadendo la separazione tra l’Io e l’Altro in essa presente. Questo suo sdoppiamento sembra anche riflettere la situazione ambigua in cui vivevano le donne all’inizio del Novecento: «da un lato la speranza di cambiamento e le ambizioni della “donna nuova”, dall’altro la permanenza dei codici borghesi e della distinzione tradizionalista dei ruoli»[7]. In effetti, al centro dei suoi lavori ha posto sempre temi relativi l’identità femminile, da lei percepita come ormai in frammenti e perciò ha cercato di ricomporla attraverso i molti fotomontaggi. È questo che sembra aver fatto nella serie dei Ritratti realizzati tra gli anni Venti e Trenta, come nella Danzatrice inglese (1928), dove è evidente il desiderio di ricostruire l’identità femminile in una situazione di autonomia e di libertà, svincolandosi sia dagli uomini che dagli stereotipi propagandati da certe riviste di massa. Significativa è anche l’opera Ballerina russa, il mio doppio, un ritratto della sua nuova compagna Til Brugman, nella quale intende identificarsi nel tentativo di ritrovare l’unità persa[8]. Inoltre H. Höch, arrivata quasi al capolinea, ha sentito anche il bisogno di realizzare un’autobiografia visiva, raccogliendo varie fotografie personali in un fotocollage del 1971-72. Operazione, questa, anticipata dallo scrapbook del 1933, una sorta di «album di ricordi»[9] e di «diario personale»[10], nel quale parla di se stessa per metafore, poiché le immagini raccolte provengono da varie riviste commerciali ma riguardano argomenti che la coinvolgono in prima persona. Tra tutti spicca il tema della maternità, alla quale ha dovuto rinunciare e questo forse era anche un modo per metabolizzare le ferite causate dai suoi due aborti.

Bayer

Fig. 4 – H. Bayer, Autoritratto, 1932

 Frequente anche in altri artisti è il tema del corpo in frammenti, sensazione causata dalla perdita della consapevolezza di sé, regredendo così a quella situazione tipica dei bambini di età compresa tra i 6 e i 12 mesi, i quali – secondo H. Wallon – percepiscono il corpo come composto da una serie di organi autonomi. Questo sembra accadere anche in H. Bayer, che nell’Autoritratto (fig. 4) del 1932 si sta guardando allo specchio e lo spettatore vede il riflesso dell’artista mentre osserva sbigottito la frammentazione del proprio braccio[11]. Si è qui in presenza di un Doppio, la cui scoperta è già di per sé perturbante, ma questo Doppio è perfino privo di unità, forse anche di consistenza, ed insinua quel dubbio – di cui ha parlato S. Freud nel saggio Il perturbante[12] – circa l’identità da automa o meno di un corpo. E la fotografia testimonia questo momento di dissociazione e di frammentazione ma diviene anche lo strumento mediante il quale “ritrovarsi”, poiché «la partecipazione da parte vostra al mio mostrare questo smembramento è il momento magico nel quale io, in realtà, vi chiedo di ricompormi; cioè è il vostro stesso guardarmi e partecipare a questa morte che è in me, che forse mi fa risuscitare»[13].

Un altro motivo ricorrente nelle immagini fotografiche è il riflesso speculare, forse perché è un modo col quale documentare il momento della scoperta del proprio alter ego, familiarizzandovi al tempo stesso.

Hawarden

Fig. 5 – C. Hawarden, Clementina Maude, 1864-65.

Facendo un salto indietro non si può trascurare il caso della fotografa Clementina Hawarden[14], che a partire dal 1859 ha puntato l’obiettivo verso due dei suoi dieci figli, cioè le sorelle Isabelle Grace e Clementina Maude, riprese sempre mentre si stavano specchiando nell’intimità delle loro camere. In queste fotografie Lady Hawarden ha creato un «sottile gioco di rimandi psicologici e di interscambi» «tra la propria immagine e quella delle figlie o, ancor meglio, tra la sua identità e quella delle figlie»[15]. In altri termini, ha cercato di ritrovare la propria identità attraverso le figlie, forse da lei concepite come un Doppio con cui dover instaurare un certo legame e ha deciso di farlo attraverso la macchina fotografica. In due fotografie dedicate a Clementina Maude, Clementina Maude, 5 Princes Gardens  del 1862-63 e Clementina Maude (fig. 5) del 1864-65, la figlia è in piedi, appoggiata allo specchio, ma volge lo sguardo verso la madre, nella quale pare cercare il suo vero Doppio.

Non a caso M. Klein sosteneva che è proprio nel volto materno che si può vedere quel Doppio perturbante che di solito compare nello specchio[16]. E quel riflesso che la figlia ignora sembra quasi assumere una vita autonoma, ma la madre interviene con la macchina fotografica impedendole di perdere una parte di sé e aiutandola a tenere unite la sua traccia fotografica e la sua immagine speculare. Invece nel ritratto Clementina Maude del 1863-64 la fanciulla cerca d’instaurare un legame con il suo Doppio speculare, escludendo la madre, tuttavia il suo riflesso è volto proprio verso l’obiettivo fotografico ed è come trovarsi di fronte a quel Doppio in cui sia la madre sia la figlia devono identificarsi. La presenza costante della Hawarden nell’intimità della figlia può essere spiegata anche attraverso le teorie di F. Dolto, la quale sosteneva che l’incontro con lo specchio può essere pericoloso se il bambino non ha vicino la madre, poiché l’immagine speculare è vuota, fredda e lascia il soggetto senza risposta[17]. Quindi la madre offre quella relazione con l’Altro che è indispensabile per mantenere intatta la propria identità. In un’altra delle molte fotografie dedicate a Clementina Maude c’è quest’ultima che si sta avvicinando allo specchio ma poi si gira verso la madre, che probabilmente si trova dietro quella macchina fotografica che si vede riflessa nello specchio. Si può ipotizzare che Lady Hawarden odiasse farsi fotografare, perciò in tutte le fotografie la sua presenza è sottintesa, oppure è sostituita dall’apparecchio fotografico, con il quale si identifica e dietro al quale si nasconde, tanto che lo ha reso il principale strumento di relazione con le figlie.

In effetti, nei casi in cui la macchina fotografica diviene parte dell’immagine si mette in evidenza che quest’ultima è il prodotto finale di un atto di relazione. In un Autoritratto di Umbo (pseudonimo di Otto Umbehr), datato al 1930, l’oggetto con cui relazionarsi è l’artista stesso, sul cui volto si vede l’ombra dell’apparecchio fotografico da lui stesso tenuto in mano. Invece in un Autoritratto di poco successivo compare nell’atto di puntare l’obiettivo verso il mondo circostante e in primo luogo verso il fruitore, dichiarando il suo desiderio di entrarvi in relazione attraverso la fotografia. Inoltre, qui entra in gioco anche il tema del dio-protesi che ha incorporato in sé la macchina fotografica[18].

Cahun

Fig. 6 – C. Cahun, Autoritratto, 1928.

Tale tema è presente anche in un Autoritratto di Claude Cahun[19] (pseudonimo di Lucy Schwob), dove l’artista tiene in mano una sfera nella quale si vede il riflesso di quanto le sta di fronte e in quella massa chiaroscurale si può intravedere la macchina fotografica che lei, anche se indirettamente, afferra con cura dichiarando il ruolo di primaria importanza assunto nella sua vita dalla fotografia. Questo perché è stata l’unico strumento attraverso il quale ha potuto analizzare la propria ambiguità identitaria, con un intento almeno in parte terapeutico, confermato dal fatto che la sua produzione fotografica – a differenza di quella letteraria[20] – non è mai stata ufficializzata. Da non sottovalutare è anche il ruolo rivestito dalla sua compagna Marcel Moore (pseudonimo della sorellastra Suzanne Malherbe), la quale deve averle scattato le molte fotografie prodotte e probabilmente anche nell’opera sopramenzionata

Cahun

Fig. 7 – C. Cahun, Ritratto di Suzanne

è lei che si trova dietro l’obiettivo. In questo modo il suo gesto d’afferrare la sfera può alludere anche al suo desiderio di unirsi con quel suo Doppio. Molte sono le sue affermazioni riguardo la loro «intenzione di realizzare un io»[21] e di fondersi l’una nell’altra grazie a quello «specchio magico»[22] identificabile proprio con la fotografia. È in questi termini che vanno interpretati i due autoritratti che nel 1928 si sono scattate reciprocamente[23]. La Cahun, nel suo Autoritratto (fig. 6), compare di fronte allo specchio, in abiti maschili, lo sguardo rivolto verso il fotografo, l’espressione stupita, chiaramente evidente soprattutto nel riflesso speculare, che sembra aver scorto qualcosa dietro le proprie spalle. Invece la Moore, nel suo Ritratto di Suzanne Malherbe (fig.7), è di profilo, sorride, guarda lo specchio (sempre lo stesso), mentre la sua immagine speculare cerca un contatto visivo con Claude, ora calatasi nel ruolo del fotografo. Per C. Cahun la sua compagna armata di macchina fotografica era il suo «testimone familiare»[24] che doveva seguirla e sostenerla durante i molteplici tentativi di entrare in contatto con i suoi alter ego. In un certo senso M. Moore l’ha aiutata a specchiarsi, sostituendo quella madre che non era mai stata capace di prendersi cura della propria figlia perché preda di crisi nervose, a causa delle quali aveva trascorso gli ultimi anni di vita in un ospedale psichiatrico. Infatti è solo sotto l’occhio vigile della Moore fotografa che Cahun ha potuto esplorare le varie facce della sua identità – quella del ragazzo, del dandy, del buddha, della farfalla, del marinaio, del diavolo –, oscillando dall’una all’altra senza timore, poiché la compagna teneva insieme i pezzi, impedendole di ritrovarsi con un corpo in frantumi o di perdersi nell’immaginario. Così facendo è riuscita a vedersi «alla terza persona»[25], familiarizzando con quella identità purtroppo minacciata dai molti disagi psichici di cui ha sofferto, tra cui l’anoressia nervosa. E forse in nessun altro quanto in lei sono «la sua vita, le sue esperienze, le sue fragilità e le sue ambiguità il vero motivo conduttore di tutta l’opera fotografica e anche letteraria»[26].

 


Giada Carraro, dott.ssa in Storia dell’Arte Specializzanda in Beni storico-artistici ed autrice della tesi di Laurea specialistica “Attraverso l’obiettivo: il potere terapeutico della fotografia tra arte e psicologia”

 

 

[1] «I poeti sono però alleati preziosi, e la loro testimonianza deve essere presa in attenta considerazione, giacchè essi sono soliti sapere una quantità di cose tra cielo e terra che la nostra filosofia neppure sospetta. Particolarmente nelle conoscenze dello spirito essi sorpassano di gran lunga noi comuni mortali, poiché attingono a fonti che non sono ancora state aperte alla scienza» (S. Freud, Delirio e sogni nella “Gradiva” di W. Jensen in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 460).
2 Cfr. E. Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 113-14.
3 L. Vergine, Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio, Skira, Milano 2000, p. 24.
Vergine nel dare questa definizione di smorfie si riferiva a certe operazioni body artistiche, come quelle di A. Rainer e di B. Nauman, anticipate da E. Schiele.
4 G. Lista, Futurismo e fotografia, Multhipla Edizioni, Milano 1979.
5 Cfr. P. Fossati, Autoritratti, specchi e palestre. Figure della pittura italiana del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 43-45; 49-50.
6 Cfr. F. Muzzarelli, Formato tessera. Storia, arte e idee in photomatic, Bruno Mondadori, Paravia 2003, pp. 80-81. F. Muzzarelli ricorda anche un «fotoritratto plurimo» di L. Pirandello, che nel pieno rispetto della sua ricerca letteraria si è fatto fotografare con a fianco il suo Doppio.
7 F. Muzzarelli, Il corpo e l’azione. Donne e fotografia tra Otto e Novecento, Atlante, Bologna 2007, p. 236.
8Se l’amore eterosessuale pone la donna in un ruolo di subordinazione, quello «lesbico pare invece consentire alla donna di sdoppiarsi e di conoscere per sé quel corpo che da secoli è cosa appropriata da altri. De Beauvoir lo chiama il “miracolo dello specchio” e cioè quella reciprocità simmetrica che permette ad una donna di riflettersi e scoprirsi accarezzando il corpo di un’altra donna» (Ivi, p. 13).
9 Ivi, p. 247.
10 Ivi, p. 249
11 Cfr. E. Grazioli, Corpo e figura cit., pp. 147-48.
12 In questo saggio Freud ricorda che Jentsch ha posto tra le situazioni capaci di provocare quella strana sensazione «il “dubbio che un essere apparentemente animato sia vivo davvero e, viceversa, il dubbio che un oggetto privo di vita non sia per caso animato”, e si è richiamato all’impressione provocata da figure di cera, da bambole ingegnose e da automi» (S. Freud, Il perturbante in Saggi cit., p. 277).
13D. Napolitani in L. Vergine, Body art cit., p. 19.
14 Cfr. F. Muzzarelli, Il corpo e l’azione cit., pp. 67-89.
15 Ivi, pp. 71-72.
16Per un approfondimento sul pensiero di M. Klein si rimanda a M. Klein, Il complesso edipico alla luce delle angosce primitive in Scritti 1951-1958, Bollati Boringhieri, Torino 1978, pp. 335-08.
17 S. Ferrari, Lo specchio dell’io. Autoritratto e psicologia, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 89-92.
18 Cfr. R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 214-16. M. Giuffredi, Preliminari a una psicologia dell’autoritratto fotografico in S. Ferrari (a cura di), Autoritratto, psicologia e dintorni, Clueb, Bologna 2004, p. 114.
19 Questa artista è stata a lungo trascurata, infatti è solo negli anni Ottanta che i suoi autoritratti fotografici sono stati riscoperti ma non in Italia, dove tuttora le sono stati dedicati pochi saggi, tra cui il capitolo presente in F. Naldi, I’ll be your mirror. l travestimenti fotografici, Cooper & Castelvecchi, Roma 2003; e quello in F. Muzzarelli, Il corpo e l’azione cit., pp. 179-04. Invece in Francia è preziosa la ricerca svolta da F. Leperlier, autore di Claude Cahun photographe: 1894-1954, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Jean-Michael Place, Parigi 1995; e del più recente L’Exotisme intérieur, Fayard, Parigi 2006.
20 I testi letterari prodotti dalla Cahun sono di varia natura, tra i tanti si possono ricordare: Aveux non avenus (1930), una raccolta autobiografica di dialoghi, aforismi e scritti vari; Héroïnes, quindici novelle pubblicate nel 1925 sul «Mercure de France» e su «Le Journal Littéraire», ma solo di recente edite in un volume in lingua inglese; inedito era l’autobiografico Confidences au mirror (1945-46), poi riscoperto da F. Leperlier.
Per un approfondimento si veda F. Muzzarelli, Il corpo e l’azione cit., pp. 179-84.
21 C. Cahun in Ivi, p. 201.
22 C. Cahun in Ibidem.
23 Cfr. Ivi, p. 188.
24 C. Cahun in Ibidem.
25C. Cahun in Ivi, p. 189.
26 Ivi, p. 198.

Redazione NuoveArtiTerapie
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