
02 Nov Il teatro in carcere: tra libertà e restrizione
L’ordinamento penitenziario costituisce il momento di attuazione del principio.
Sancito dal 3° comma art. 27 della Costituzione in cui la finalità della pena viene intesa come rieducazione e risocializzazione del detenuto.
Infatti tale articolo letteralmente recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
La vecchia idea della pena come costrizione, punizione o emenda, è ribaltata dalla Costituzione in quanto la funzione della pena rappresenta un mezzo per la riabilitazione del detenuto.
A distanza di trenta anni dal disposto della Carta Costituzionale, l´Ordinamento Penitenziario del 1975, per la prima volta ha disciplinato per legge gli interessi dei detenuti, dei condannati e degli internati.
La normativa, recependo non soltanto il principio fissato dal dettato costituzionale, ma accogliendo anche gli orientamenti che negli ultimi decenni si sono delineati a livello internazionale, ha rappresentato una svolta rispetto alla nozione del carcere che assolve ad una funzione custodialistica, in quanto il carcere accoglie condannati ed internati che devono essere emendati, rieducati e reinseriti nell´attività produttiva e nel contesto sociale, attuando un esempio di trattamento proiettato verso il recupero sociale del detenuto e i più ampi contatti con il mondo esterno.
Accanto ai metodi tradizionali, lavoro, istruzione, religione, ai fini della risocializzazione e del reinserimento del condannato, l´ordinamento penitenziario tende a mutuare i metodi propri delle scienze sociali, aprendo spazi di collaborazione per lo svolgimento di attività di osservazione e trattamento a professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica.
Questi specialisti, in quanto capaci di studiare le cause della devianza, possono imporre a tutti i livelli una strategia differenziata, onde potere poi espletare il trattamento penitenziario individualizzato che dovrebbe tendere ad una emenda sostanziale del reo, ad aiutarlo a reinserirsi nell´attività lavorativa e nel contesto sociale in modo che alla fine si ottengano degli effetti totalmente risocializzanti.
Ci si chiede, comunque, se sia possibile attuare un´opera rieducativa all´interno del carcere. Infatti ogni tecnica psico-pedagogica che miri al reinserimento del detenuto va a scontrarsi con la condizione di esclusione nella quale il detenuto si trova, per cui si determina un problema di difficile soluzione, quale quello di dover conciliare la finalità della socializzazione e del reinserimento, ed una situazione, quella carceraria che, di per sé, è esclusione dell´individuo dalla società.
In un quadro siffatto è importante rilevare l´importanza del ruolo dell´esperto in psicologia che con tecniche diagnostiche e trattamentali tende a stimolare in un soggetto il senso critico e la capacità autonoma di scelta. Kelman indica tre processi di influenza sociale attraverso i quali gli atteggiamenti possono venire mutati:
- la condiscendenza che si verifica, per esempio, in quelle situazioni in cui il detenuto si mostra pentito, deve ottenere dei benefici;
- l´identificazione che si verifica quando il detenuto si comporta in modo che il rapporto con l´operatore lo soddisfi e lo faccia sentire diverso, ma si tratta di una modificazione di atteggiamento superficiale che si esaurisce con il cessare del rapporto;
- l´interiorizzazione che si verifica quando il cambiamento inerisce al sistema di valori a cui il detenuto fa riferimento.
Ritenendo quest´ultimo il processo capace di produrre un mutamento permanente e produttivo nel soggetto, il compito dello psicologo dovrebbe essere quello di formare, prima di ogni altra cosa, il senso critico e la capacità autonoma di scelta.
Si deve tenere presente che il rispetto della legge, così come citato nelle Regole Minime dell´ONU e del Consiglio d´Europa per il trattamento dei detenuti, “non significa conformismo e passivo adattamento alla società circostante, ma aderire al sistema di norme e valori presenti in una comunità dinamica di cui funzione essenziale sono anche la critica costruttiva e il rinnovamento sociale”.
Perché ciò possa avvenire è importante però che il soggetto sia reso consapevole delle contraddizioni sociali in cui vive e che prenda coscienza del ruolo che svolge nella società.
L´inserimento sociale post-penitenziario del detenuto presuppone che, nel periodo di esecuzione della pena, si debbano favorire situazioni per un percorso individuale di riflessione, ma anche collettivo di revisione critica e cambiamento onde maturare un progetto personale riguardante la sua vita futura.
Questi obiettivi sono raggiungibili attraverso l´utilizzo di diversi percorsi e risorse: il teatro è una di queste e si pone come elemento rilevante del trattamento insegnando la dimensione del gruppo e riportando alla solidarietà e allo scambio con gli altri.
A distanza di 30 anni dalla Legge Gozzini del 1975, nel 2008 sono 113 gli Istituti penitenziari italiani che danno vita ad attività teatrali, le quali hanno certamente svolto una grande funzione rieducativa, stimolando la creatività e soprattutto facilitando la riorganizzazione dei rapporti interpersonali e contrastando la tendenza all´emarginazione.
Ricordiamo anche che il 3 Aprile 2006 è stato firmato un protocollo d´intesa tra il Ministero della Giustizia e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali a favore del reinserimento sociale e della formazione professionale dei detenuti nell´ambito dei mestieri dello spettacolo.
Questo riconosce allo spettacolo un ruolo significativo nella politica culturale della Giustizia e, in particolare, assume grande rilevanza nel contesto delle attività trattamentali, proprie del sistema penitenziario.
Nel protocollo si premette e ribadisce che “le attività culturali, artistiche ed espressive sono un elemento fondamentale del progetto trattamentale poiché favorendo il percorso di maturazione e crescita personale, svolgono un significativo ruolo di supporto nella prospettiva di un positivo reinserimento sociale dei condannati e alla conseguente riduzione della recidiva”.
Il lavoro che i detenuti svolgono per avvicinarsi, comprendere e far vivere un personaggio; il continuo confronto con il regista e i compagni nel lavoro di gruppo, producono positivi effetti di crescita, risocializzazione e rieducazione.
Il teatro è un lavoro su di sé motivato dal raggiungimento del prodotto finale: lo spettacolo. È, quindi, un progetto concreto che stimola a mettersi in gioco e che richiede sforzo e disciplina.
Tramite il lavoro teatrale si recupera e si sviluppa inventiva e creatività e allo stesso tempo ci si obbliga a una assoluta disciplina, a una assoluta concentrazione e a un training spesso faticoso che comprende tra le altre cose, lo studio della drammaturgia, della recitazione, della dizione, del movimento scenico, di tecniche vocali e di elementi di storia dello spettacolo.
Alcuni degli obiettivi raggiungibili con l´attività teatrale all´interno delle Istituzioni Penitenziarie sono i seguenti:
- Ridurre il rischio di emarginazione.
- Migliorare l´autostima.
- Offrire un´occasione per riflettere su di sé e sul proprio rapporto con il mondo esterno.
- Promuovere comportamenti relazionali positivi (rispetto, sostegno, solidarietà, collaborazione, cooperazione e valorizzazione degli altri).
- Fornire competenze socializzanti (imparare a mostrare sé e le proprie emozioni, relazionarsi all´altro, collaborare per il raggiungimento di uno scopo e per il piacere stesso di relazionarsi).
- Favorire la percezione di sé come risorsa positiva all´interno del gruppo per conseguire: il riconoscimento delle peculiarità di ciascuno come opportunità di arricchimento personale; lo sviluppo della capacità di ascolto e la disponibilità verso l´altro.
- Stimolare la disciplina e recuperare la funzionalità delle regole e la co-costruzione del senso delle regole stesse.
- Sostenere le aree sane della personalità.
- Offrire stimoli per contrastare la deprivazione culturale.
Riteniamo il Teatro un´attività che possa aiutare al raggiungimento di questi obiettivi e abbiamo cercato, con questo articolo, di raccogliere e divulgare alcune delle esperienze più significative all´interno di alcune Istituzioni Penitenziarie in Italia.
Nello specifico abbiamo raccolto le esperienze maturate attraverso il senso della pratica teatrale nel carcere di Turi cercando di capire quanto il teatro abbia influito sulla crescita personale dei detenuti e sul clima comunitario dell´Istituzione, anche attraverso confronti con i detenuti e gli operatori dell´area trattamentale (educatori, psicologi, criminologi).
La raccolta delle esperienze è stata da noi condotta integrando il resoconto del regista Pino Cacace e della scenografa Valeria Pinto che hanno condotto il Laboratorio Teatrale del Progetto “Classico, ma non troppo” nel Carcere di Turi e conducono un laboratorio teatrale nel Carcere di Altamura e dell´operatrice di Teatroterapia e regista Patrizia Spagnoli che partecipa e conduce le attività teatrali all´interno della Casa di reclusione di Spoleto e della Casa Circondariale di Rebibbia.
I colloqui con i detenuti sono stati condotti in un clima empatico, accogliente, non giudicante e tutelando la privacy dei soggetti.
“Località Maiano” di Patrizia Spagnoli Maiano: Casa di Reclusione di Spoleto.
Un Istituto cosiddetto ad “Alta Sicurezza” perché ci sono detenuti per reati sottoposti ad una sorveglianza più stretta rispetto a quelli comuni. Per diversi anni ho fatto parte del gruppo di riferimento di laboratori teatrali in carcere ma è qui, a Spoleto, che per una serie di circostanze fortuite, mi sono ritrovata a fare la mia prima esperienza come “conduttrice” di un laboratorio.
Chiamarmi “regista” mi faceva (e mi fa tutt’ora) molta paura tanto più se pensavo che il mio compito quell’anno sarebbe stato tutt’altro che facile; si prospettava faticoso infatti continuare l’opera iniziata da Philippe. Si era dovuto allontanare per qualche tempo e io mi ero offerta di portare avanti in sua assenza il laboratorio per non abbandonare i “ragazzi”.
Più che il regista “Phil” era un loro amico, l’amico francese, l’artista dal cuore buono e ci sarebbe voluto del tempo per ottenere la stessa fiducia. Avevamo deciso di vederci ogni quindici giorni; lo sapevo, era un po’ poco, ma giusto per cominciare, poi, in seguito, avrei cercato senz’altro di intensificare gli incontri. All’inizio, il difficile era stato spiegare loro il mio modo di considerare il teatro, e soprattutto quello carcerario, come strumento di crescita. Da anni mi ripetevo in continuazione: “quando sarò io ad organizzare il corso di teatro…”.
Teatro sociale? Drammaturgia carceraria? Teatro dell’oppresso? Non lo sapevo.
Ma una cosa invece la sapevo: doveva essere teatro, assolutamente teatro. Bello o brutto, triste o allegro, profondo o superficiale non aveva poi molta importanza purché si fosse trattato di teatro; purché i detenuti si fossero sentiti parte integrante di quel processo che porta ad una rappresentazione teatrale partendo dalla quotidianità per spostarsi nell’extra-quotidiano, come mi aveva per anni insegnato il mio maestro Walter Orioli; attraverso il rapporto con gli altri del gruppo, attraverso la condivisione di un obiettivo comune, attraverso la speranza di poter rivedere un giorno la propria casa, attraverso un personaggio misterioso oppure uno più conosciuto.
Specialmente i primi tempi però c’erano stati tanti momenti in cui stavo quasi per abbandonare il progetto.
I detenuti non riuscivano ad accettare che un copione si costruisce con il tempo e soprattutto che il copione è di tutti: si realizza giorno per giorno, con la partecipazione di tutti e con le esperienze di tutti.
La struttura narrativa di questo spettacolo teatrale doveva basarsi sui racconti che i detenuti avrebbero fatto del loro rapporto con le città di origine. Principalmente Napoli e Palermo. Avrebbero potuto confrontarsi con i miti della loro terra, riportando le storie dei loro nonni, le loro corse in mezzo ai mercati, le grida delle donne o dei venditori ambulanti. Dai singoli racconti saremmo passati poi ai commenti e ad altre storie, a volte simili, per ciascuno di loro.
Storie tristi che li avevano portati sino al carcere. Storie di adolescenza, di deboli identità capaci di affermarsi soltanto attraverso la violenza sugli altri. Non solo il tema da trattare doveva essere scelto dai detenuti, ma volevo a tutti i costi che il mio contributo, almeno in questa fase, si limitasse a collegare i vari pezzi, le varie idee e i vari interventi che loro stessi proponevano ad ogni incontro per costruire insieme una storia comune. Qualcosa di cui parlare l’avevamo scelta subito: la libertà. “In carcere di che cosa vuoi che si parli: di libertà, di evasione, di ergastolo” aveva subito chiarito F..
Fu solo dopo qualche mese, invece, quando oramai avevo perso le speranze ed ero sopraffatta dalle lamentele e dalle defezioni dei più scettici, che cominciarono ad arrivare i primi racconti. Con mio grande stupore il primo a decidere di voler parlare di sé era stato G.. Si era sbrigato perché dopo molti anni di carcere già scontati per lui era finalmente arrivata la sentenza definitiva: ergastolo.
E, si sa, la Legge prevede che in caso di ergastolo il condannato debba trascorrere un anno in isolamento. G. si accingeva quindi a salutarci tutti, sicuro che avrebbe fatto in tempo a partecipare allo spettacolo finale ma nel frattempo voleva comunque farci sentire la sua presenza durante le prove: Mammà prendeva 50 mila lire a settimana. Doveva pagare la luce e la spesa per noi figli, noi mangiavamo come lupi e lei poverina si invecchiava in mezzo ai strofinacci e ai detersivi. Ma noi non capivamo nulla e così stavamo sempre in mezzo alla strada. La strada è stata la nostra consigliera ma non capivamo che era tutto un inganno.
Alla fine tutti e tre fratelli abbiamo fatto una brutta fine. Tutti e tre siamo entrati in carcere proprio come papà. Solo Andrea si è salvato, ora è nata sua figlia Francesca. Io invece mia figlia…. già mia figlia.
Oggi ha 15 anni, sta con mammà. Mia moglie se ne è andata e io devo stare qua dentro. Dicono che ci devo morire qua dentro. Oggi mi chiedo, ma dove era mio padre, dove erano gli assistenti sociali che io mi morivo di fame?! Perché non c’era nessuno vicino a noi a portarci sulla buona strada? E da una storia, piano piano ne arrivarono tante altre. Anche quelle di chi non aveva avuto la fortuna di andare a scuola e per raccontare il suo dramma aveva chiesto aiuto a qualche compagno. Qualche altro aveva rispolverato vecchie pagine di quaderno scritte durante i lunghi giorni di reclusione e che non aveva mai avuto il coraggio di rendere pubbliche. Racconti tristi. Tanto tristi da convincere S. un giorno a fare della ironia: “Ma insomma!! La vogliamo smettere con questa storia dell’ergastolo? La vogliamo smettere di dire che in carcere si sta male?
Io sto tanto bene qui: mangio, bevo e si raccomandano con me ogni giorno di stare zitto e di pensare poco. E che cosa voglio di più!?”
Anche questa improvvisazione di S. diventò parte del copione che ad ogni incontro acquistava sempre più una sua struttura. La prima parte del racconto era stata ritagliata da un lavoro di un detenuto della Casa di Reclusione di Roma che si era subito messo a disposizione pensando addirittura ad una sorta di gemellaggio Roma-Spoleto:
“Se a Spoleto non c´è nessuno che gode della semilibertà o di permessi premio non sarà possibile la rappresentazione dello spettacolo all´esterno giusto? E allora all´esterno potremmo farlo noi no?
Attori diversi di istituti diversi ma con lo stesso testo”. Già, gli “ospiti” di Spoleto non godono dei benefici della Legge Gozzini che aveva permesso ad altri poco tempo prima di recitare nei grandi Teatri della Capitale grazie al progetto “Teatro Therapy”. Legge che aveva dato la possibilità, a loro di Roma, di provare, anche solo per qualche giorno, quella emozione che provano i veri attori professionisti; che aveva consentito loro di far vedere al mondo esterno il percorso di crescita attuato grazie al teatro anche a dimostrazione della grande forza del teatro.
“Considerazioni storiche e analisi della progettualità nell´area pedagogica delle Carceri di Turi ed Altamura” di Pino Cacace
Martedì 12 febbraio 2008, con la rappresentazione de I Menecmi, di T. M. Plauto, adattamento di Pino Cacace, si è concluso, presso la Casa Circondariale di Turi, il laboratorio teatrale dal titolo Classico…ma non troppo, protrattosi per cinque mesi c.ca con cadenza di due incontri settimanali di due ore.
I partecipanti, ospiti dell´Istituto sono stati una decina tra alunni del gruppo di recitazione e quello di scenografia. Gli operatori, Pino Cacace in qualità di conduttore-regista e Valeria Pinto scenografa e costumista, hanno innescato dei meccanismi di interesse e di coinvolgimento capaci di rendere possibile la conclusione di un percorso spesso reso difficile dalle innumerevoli problematiche presenti all´interno della Istituzione penitenziaria.
È altresì importante sottolineare quali e quanti piccoli obiettivi sono stati raggiunti in itinere, da quelli meno evidenti, a quelli più appariscenti: il superamento del clima di scetticismo tipico di chi approccia un´attività completamente al di fuori della propria sfera di interessi, l´apertura a nuove forme di comunicazione e lo sblocco psicologico delle resistenze interiori, la pratica della solidarietà sulla base di un obiettivo comune da raggiungere.
Su questo terreno è stato possibile monitorare i traguardi raggiunti da ogni singolo partecipante a sottolinearne i progressi e gli intendimenti in proiezione di una vita post-detentiva.
Mercoledì 18 giugno 2008, presso la Sala Consiliare del Comune di Altamura, è stato presentato il film cortometraggio Anima di celluloide, realizzato all´interno del laboratorio video-cinematografico dal titolo Sguardi in controluce. Questi sono solo gli ultimi due interventi di carattere socio-formativo che l´Associazione Il Borgo delle Arti realizza ormai da diversi anni nelle Carceri di Turi e Altamura.
Il primo intervento di carattere educativo e spettacolare con protagonisti i detenuti della Casa Circondariale di Altamura, risale al 2003, anno in cui a chiusura del primo laboratorio tenuto dagli operatori de “Il Borgo delle Arti di Bari”, venne prodotto lo spettacolo “Liberi per Broadway”.
Si trattò di una esperienza eccezionale perché portata a compimento tra mille difficoltà, quelle stesse che, invero, si sarebbero ripresentate negli anni a venire, ma che testimoniò una nuova forma di aggregazione e di socializzazione all´interno dell´Istituzione Penitenziaria.
Da quella prima esperienza sono poi stati confezionati in ogni anno a seguire nuovi spettacoli, “Cocktail a sorpresa”, “Storie mai narrate”, “Anima di celluloide” (rappresentazione teatrale), “L´Italia di Colino e dei vecchi ricordi” e un film cortometraggio, ultima recente acquisizione di “Sguardi in controluce”, laboratorio di arti visive. In cinque anni circa, si è quindi sviluppato e intensificato, consolidandosi, un intervento educativo con una costante non scritta, ma profondamente insita nel DNA degli operatori trattamentali: favorire le occasioni per valorizzare la creatività della popolazione detenuta.
Il teatro e il cinema hanno mantenuto, in questo arco di tempo, inalterate le loro caratteristiche di “strumenti utili”. Strumenti di comunicazione e talvolta di modifica della realtà istituzionale. Alla luce di quanto detto è ormai chiaro e sotto gli occhi di tutti, critici, esperti e educatori, che il teatro e il cinema creano autoconsapevolezza, autopercezione e determinano migliore capacità comunicativa, che l´azione scenica sia elemento per consolidare percorsi socializzanti, che la riflessione di gruppo possa costituire una concreta opzione terapica individuale e collettiva.
“Turi: verso una risocializzazione possibile?” di Marika Massara.
Apro questa riflessione con una domanda, la prima che mi sono posta nel momento in cui ho deciso di recarmi presso la Casa di reclusione di Turi intenzionata a raccogliere le esperienze dei detenuti e degli operatori coinvolti nel Progetto di Teatro “Classico…ma non troppo”.
Le domande che sono seguite sono diverse: come può il carcere risocializzare, rieducare, stimolare la crescita personale in un contesto che esclude l´individuo dalla società, lo reclude in spazi stretti e isolati, gli impone regole, lo sottopone a deprivazione sensoriale, affettiva e culturale?
Le modificazioni psicologiche indotte nel detenuto sono state studiate da Clemmer (1940), che ha coniato il termine “prisonization” per indicare il processo di progressiva assunzione da parte dell´individuo internato dei valori, della cultura, degli atteggiamenti e delle abitudini dell´istituzione. Si attua una spersonalizzazione e una destrutturazione del sé dovuta alla eteroinduzione di valori e principi dell´istituzione facendo passare in secondo piano quelli maturati in maniera individuale con i quali si era fino ad allora identificato.
L´istituzione totale impone i suoi tempi e i suoi spazi, le sue regole vanno osservate per motivi di sicurezza, di ordine e di controllabilità. Nel mondo esterno, l´individuo può contare su una serie di esperienze che gli danno un sentimento di sé: il suo corpo, le sue azioni immediate, i suoi pensieri, ciò che possiede, il tutto libero da contatti estranei e contaminanti. In un contesto di istituzione totale questi territori appartenenti al sé sono violati, la frontiera che l´individuo edifica tra ciò che è e ciò che lo circonda è invasa e la barriera del sé profanata. La magia della rappresentazione teatrale diventa oltre che uno strumento di risocializzazione, una possibilità di riappropriarsi dell´identità destrutturata dall´ingresso nell´istituzione.
Goffmann afferma che ogni istituzione totale può essere considerata come una sorta di mare morto, nel mezzo del quale pullulano piccole isole di attività vitali e molto stimolanti come laboratori e scuole.
Queste attività possono aiutare l´individuo a sostenere la tensione psicologica generalmente prodotta dagli attacchi al sé. Nella società civile l´individuo di solito ha la possibilità di rifugiarsi, di scivolare via in qualche zona protetta, in un contesto di istituzione questo non è possibile. Per questo è necessario un luogo dove ci si può mostrare ed esporsi. Un´isola, un´oasi dove poter lavorare su di sé, dove poter tracciare un percorso interiore. Con queste domande e l´idea di una possibile oasi rappresentata dal Laboratorio Teatrale, ho condotto la mia indagine nella Casa di Reclusione di Turi.
L´incontro con la Direttrice Maria Teresa Susca, gli Educatori, gli Agenti di Polizia Penitenziaria, la Criminologa e i detenuti mi ha mostrato che in carcere la risocializzazione è possibile. I detenuti della Casa di reclusione di Turi sono seguiti attentamente a livello trattamentale e vengono offerte loro diverse opportunità di crescita e formazione.
Il modo attento e coinvolto in cui è stato condotto il Laboratorio di Teatro dal regista Pino Cacace e dalla scenografa Valeria Pinto è emerso in particolar modo dai colloqui con i detenuti.
Quello che emerge dalla raccolta delle riflessioni dei detenuti e degli operatori che hanno partecipato a questo Laboratorio è:
- La possibilità attraverso il Teatro di riconoscere in sé capacità, abilità e risorse sconosciute ed una percezione di sé come “capace” di intraprendere percorsi diversi rispetto alla devianza, come “capace” di cambiare;
- La possibilità di mostrare al pubblico e alla società esterna che non sono solo detenuti che hanno commesso reati, ma persone con delle abilità e qualità che possono recuperare e sviluppare. Questo facilita, da un lato il loro percorso di risocializzazione, dall´altro permette al cittadino di avvicinarsi a questo mondo, a volte tenuto troppo distante;
- Il miglioramento delle abilità e capacità comunicative e di linguaggio, vissute spesso dai detenuti come un handicap e un grosso disagio. Infatti tra gli obiettivi del progetto “Classico…ma non troppo” notiamo oltre al conseguimento di un buon livello di approfondimento introspettivo e di socializzazione, anche il recupero delle capacità espressive a livello linguistico e della comunicazione in genere, soprattutto attraverso la scelta di testi classici riproposti in chiave facilitata e facilitante;
- Avere stimoli e poter confrontarsi su argomenti diversi da quelli “soliti” del carcere;
- Sentirsi attivi e produttivi;
- Scoprire nuove possibilità professionali, infatti i laboratori prevedono interventi oltre che nella sfera della recitazione, anche in quella della scenografia, delle luci e della fonica, avendo i partecipanti collaborato in toto all´allestimento dello spettacolo finale. Si fa strada così, l´ipotesi di costruire una struttura stabile di formazione di figure professionali nelle discipline dello spettacolo. Questa possibilità è stata anche esplicitata dagli educatori, il Dott. Bruno Coletti e il Dott. Pasquale Di Pierro, che hanno riportato come “far acquisire competenze pratiche/formative spendibili nel contesto di riferimento di provenienza facilita il consolidamento di un atteggiamento pro-sociale”;
- Come riporta la Criminologa, la Dott.ssa Angela Spinelli, i detenuti “diventano più tolleranti verso le regole e verso la stessa Istituzione.” Questo ultimo punto ci riporta all´importanza della pratica teatrale come zona protetta dagli attacchi al sé.
Questo integra gli obiettivi raggiungibili attraverso il Teatro, citati nella prima parte dell´articolo.
Per concludere, mi sembra importante riportare alcune delle frasi dei detenuti sulla loro esperienza nel Laboratorio teatrale*:
“Mi sono sentito accolto. Proprio l´altro giorno ho chiesto all´educatore se potevamo fare un altro laboratorio teatrale. Perché se ne faccio altri mi posso sbloccare di più.”
“Sì sono cambiato tanto, sono migliorato. Ho imparato ad essere più responsabile. Mi ha insegnato ad essere più responsabile e ad aprirmi con gli altri.”
“Ho scoperto delle abilità che non sapevo di avere. Ti fa capire che puoi fare tante cose, anche che non credevi di poter fare, l´importante è metterci un po´ di buona volontà. Mi ha fatto vedere che ero capace di fare cose che non pensavo. Mi ha insegnato a saper parlare, ad esprimermi, mi ha dato la possibilità di socializzare con le persone e mi ha fatto crescere, mi ha dato nuovi stimoli. Ci ha fatto sentire più uniti, perché scherzavamo, anche dopo il laboratorio avevamo qualcosa di cui parlare. Anche perché in cella c´era un´ altra persona che faceva il teatro e ripetevamo insieme. Mi ha dato altri stimoli che non pensavo di avere, mi ha fatto crescere, mi ha fatto capire che se ci metto la buona volontà ce la posso fare a fare anche altro, a cambiare, a volte noi pensiamo che siamo discriminati perché siamo detenuti, invece vista questa esperienza si vede che se ci mettiamo la buona volontà ce la possiamo fare.”
“Mi sono sentito più realizzato, più attivo e soddisfatto. Ti porta a conoscerti meglio, dopo le ore di teatro studiavamo le battute.”
“La cosa che mi è piaciuta di più è che venivano anche persone da fuori a vederci. Dimostrare che ho fatto una cosa bella. Penso di aver fatto una cosa bella e buona che mi potrà servire fuori, dimostrare che sto un passo avanti, dimostrare a mia moglie e mia figlia che sto cambiando. Mi ha fatto pensare che si può cambiare. Dentro di me sento che ce la posso fare. Riuscire anche a fare una cosa davanti ad altre persone soprattutto per me che sono timido. Con gli altri compagni eravamo più compatti, più vicini.”
“Io all´inizio non volevo partecipare perché sono un tipo un po´ timido, l´idea di avere il contatto con il pubblico mi metteva ansia e invece l´educatore mi ha incoraggiato. All´inizio avevo un po´ di timore poi mi sono sbloccato. Passare il tempo insieme agli altri soprattutto Cacace e la Pinto, per vedere nuove persone e non avere a che fare sempre con le stesse persone del carcere. Avere a che fare con gente di fuori mi permette di uscire dalla stessa canzone del carcere. In carcere si parla sempre delle stesse cose, certe volte all´aria si parla delle stesse cose e io me ne vado, dei permessi, dei reati, del fine pena, non mi piacciono quei discorsi, avendo a che fare con altre persone posso parlare di cose diverse dal solito. Ho fatto una cosa che non avevo mai fatto e non credevo di riuscirci. Il fatto di riuscire a fare una cosa che non credevo che sarei stato capace, grazie all´aiuto dei conduttori e anche dei compagni. I compagni pure mi hanno dato una mano. Prima dello spettacolo avevo ansia e poi invece avevo un compagno accanto che mi ha aiutato perché lui aveva già fatto uno spettacolo. Ho imparato parecchie cose, ad avere fiducia in me stesso che prima non avevo. Mi ha dato una spinta in più anche in altre cose, ho sviluppato alcune doti che avevo nascoste. Ho imparato ad avere fiducia in me, cosa che prima non avevo. È cambiato parecchio, prima per il fatto della condanna lunga, la mattina quando ti alzi (in altre carceri per esempio non ci sono queste attività) la mattina presto il carcere è silenzioso, non si sente un rumore, allora ti alzi presto e dici “ma quando è che finisce” ma grazie a dio sono forte mi do un paio di schiaffi in faccia e dico: “riprenditi”. Questa esperienza invece mi fa pensare, la mattina mi alzo e dico “adesso vado a lavorare, poi il pomeriggio vado a teatro, poi ho la scuola” mi distraggo, non penso che la mia vita finisca qui. Prima la mattina non sapevo cosa fare, giocavo solo a pallone. Se si fa il teatro e vado in cella, penso al teatro, non penso al carcere. Sono giovane e voglio vedere se fuori riesco a recuperare qualcosa. Il regista e la scenografa? Hanno avuto un sacco di pazienza, riuscire a far imparare a noi uno spettacolo c´è voluta tanta pazienza. Lui quando qualcuno aveva qualche problema o aveva avuto una giornata no, sapeva come prenderlo. Quando mi volevo ritirare, mi hanno sostenuto e dato molti consigli. L´attesa di andare sul palco mi metteva ansia, poi il pubblico quando sono entrato non l´ho guardato proprio, poi una volta che ho preso la mano sono riuscito anche a guardare il pubblico. Volevo dare sempre di più, volevo che il pubblico mi guardasse e mi giudicasse bene. Io non credo al destino, penso che noi ci scegliamo il destino.”
“All´inizio non mi trovavo perché ho un carattere chiuso, quando mi emoziono non riesco a parlare. Lo spettacolo finale è stato emozionante, pensavo di non riuscire e invece ce l´ho fatta. Adesso riesco a parlare anche con un magistrato, prima non riuscivo, ho difficoltà ad esprimermi e i professori mi hanno detto di insistere che ce la facevo. Mi sentivo a disagio perché non so parlare bene in italiano. È stato un tipo di terapia diciamo, perché conosci le altre persone i loro problemi e dici: allora non sono solo. Gli agenti e gli educatori? Sono più disponibili perché vedono che ti stai impegnando e ti sostengono, si interessano a te e ti stanno dietro. I conduttori venivano in cella a chiamarmi anche quando volevo mollare e ho acquisito più sicurezza, più fiducia. Mi ha aiutato a credere che posso cambiare, che posso fare cose che non pensavo di riuscire a fare.”
Alla Direttrice Dott.ssa Maria Teresa Susca, agli Educatori Dott. Bruno Coletti e Dott. Pasquale Di Pierro, alla Criminologa Dott.ssa Angela Spinelli e agli Agenti di Polizia della Casa di reclusione di Turi, un grazie di cuore per quello che quotidianamente fate per gli ospiti del Penitenziario e un grazie personale a nome mio e della Rivista per la collaborazione che ci avete offerto. Ringrazio anche tutti i detenuti che si sono messi in gioco raccontandomi le loro storie.
Marika Massara, psicologa, psicoterapeuta, Presidente Associazione Ig.art onlus.
Pino Capace, regista teatrale.
Patrizia Spagnoli, criminologa, operatrice di teatroterapia.
BIBLIOGRAFIA
Clemmer, S., Prisonization, Freeman, San Francisco, 1940.
Goffman E., Asylums: Le istituzioni totali, i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, Torino 1968.
Kelman H., Processes of Opinion Change, in Public Opinion Quarterly, vol. 25, 1961.
*Le testimonianze dei detenuti, i nomi e gli elementi relativi alla pena sono stati modificati, pur rispettando il senso da loro espresso, al fine di proteggerne l’anonimato e la privacy.