10 Dic La Dea del vino
Di Silvia Adiutori e Fabio Meloni
“Io mi compiacevo di bere,
anche perché grazie all’alcool
la fantasia viaggiava sbrigliatissima” (F. De André).
E’ una diffusa credenza popolare che l’alterazione dei processi cognitivi – dovuta alla malattia mentale, alle sostanze stupefacenti o ad altre condizioni – agevoli l’espressione artistica. L’uso dell’alcool, spesso in combinazione con altre sostanze, sembra essere associato all’estro artistico, e non mancano gli esempi illustri: da Socrate a Beethoven, da Poe a Hemingway, da Coleridge a Pollock. Possiamo immaginare che ciascuno di loro, segretamente, adorasse Bastet, la dea-gatta egiziana protettrice delle arti, del canto e – ebbene si – del vino, anche se non conosciamo la risposta che Bastet avrebbe potuto miagolare alla domanda su quali siano le ragioni per cui l’alcool faciliterebbe il processo di risoluzione creativa dei problemi. Oggi, però, sappiamo che secondo Jarosz, Colflesh e Wiley (Consciousness and Cognition, 21 (2012), pp. 487–493) il cuore della spiegazione risiederebbe nei meccanismi dell’attenzione e nelle loro implicazioni con il funzionamento esecutivo, a sua volta misurato dalla capacità della working memory (la memoria di lavoro). Diversi studi hanno dimostrato che un ridotto controllo attentivo ha implicazioni positive nella risoluzione di problemi che richiedono l’impiego della creatività. L’approccio creativo, diversamente da quello analitico, non coinvolge algoritmi computazionali o procedure analitiche incrementali ma è caratterizzato da processi più divergenti, associativi e discontinui. Il rafforzamento del controllo attentivo è certamente vantaggioso nel problem solving analitico, dal momento che permette di considerare anche l’informazione periferica presente nello spazio del problema percepito, ma sembra non esserlo affatto nell’affrontare compiti che richiedono creatività, poiché questa impone di uscire dallo spazio ristretto del problema per attingere ad altre informazioni non immediatamente presenti. È “ciò che manca”, più che “ciò che (già) c’è”, a rivelarsi spesso come informazione utile, quando non necessaria, per la soluzione creativa di un problema. Minor controllo, tuttavia, non significa minore attenzione: non è tanto la “quantità” di attenzione mobilitata a fare la differenza ma, piuttosto, il modo in cui essa è orientata, i vincoli a cui è sottoposta e l’ampiezza del suo focus. La creatività richiede un’attenzione diffusa e meno concentrata e la capacità di shiftare rapidamente da un punto ad un altro del campo dell’esperienza. Diversi studi, effettuati prevalentemente negli ultimi 5 anni, hanno provato che di fronte ad un insuccesso in un compito che richieda creatività, gli individui con un alto livello di funzionamento esecutivo, ovvero un’alta capacità di memoria di lavoro e maggiori abilità di controllo attenzionale – e che, semplificando, potremmo chiamare gli “scienziati” – tendono a rimanere “fissati” nelle strategie sbagliate e a confidare eccessivamente nella conoscenza posseduta; al contrario, le persone con una minore capacità di memoria di lavoro (e minor controllo attentivo) – i più “artisti” – sono maggiormente propensi ad abbandonare strategie complesse ma inefficaci, a favore di euristiche più semplici, immediate e relativamente svincolate dalla conoscenza accumulata. Analogamente, secondo Jarosz, Colflesh e Wiley questo accade anche quando le persone assumono quantità moderate di alcool, favorendo così l’impiego di strategie meno rigide, più “passive” ed associative nella risoluzione dei problemi. Risultati simili, inoltre, sono stati riscontrati anche con persone danneggiate nel lobo frontale laterale, che è decisamente implicato nel controllo attentivo. Lo studio di Jarosz e colleghi può, dunque, contribuire a magnificare, anche scientificamente, le virtù del bicchiere di vino – e gli autori di questo post non trovano parole adeguate per descrivere quanto ciò sia fonte di gaudente soddisfazione per loro – ma, al di là delle gratificanti fusa di Bastet, sarebbe ben poca cosa limitarsi a questo. Più significativamente, invece, questa ricerca consente di intuire almeno due aspetti importanti del funzionamento delle persone. In primo luogo, la creatività non è appannaggio di pochi e selezionati individui ma, con ogni probabilità, è universale: non tutti, forse, possiamo essere originali ma sicuramente tutti possiamo essere creativi; in secondo luogo, una delle più efficaci “levatrici” della creatività sembra essere l’attenzione, ed il modo in cui la si utilizza fa realmente la differenza: a volte, basta alzare lo sguardo e orientarlo verso ‘l’insolito’, o verso ‘l’assenza’, per aprire possibilità del tutto inaspettate e rivelare presenze sorprendenti. Uscire dall’abitudine è un esperimento e, quasi sempre, un rischio: per riuscire a farlo, al di là dell’efficace, ma purtroppo effimero, aiuto del buon vino, occorre necessariamente – e sobriamente – autorizzarsi e concederselo.