La relazione come cura – Roma 9 novembre 2012

Mariella Sassone

A distanza di un mese dal convegno organizzato da Nuove Arti Terapie poche parole sul tema della cura, affinché, mi auguro, quanto dibattuto non rimanga circoscritto nella sua valenza scientifica e professionale, non diventi parte indistinta del bagaglio di ognuno ma possa rimanere in figura ed essere oggetto di considerazione personali riguardo, appunto, alla relazione come cura. Intanto vorrei riprendere questa parola ed espanderla nei suoi significati ed accezioni che ognuno vuole e può darle.

Curare come salvaguardare, nutrire, accudire, sostenere, proteggere, donare, accogliere, attendere, ascoltare. Cura come impegno vigile ed assiduo che tende al benessere di cosa o persona oggetto di cura; contrario di incuria come negligenza, abbandono che implica danno, negazione nella missione esistenziale della persona o della cosa non curata. Sembrerebbe quindi che la cura debba poter essere una pratica quotidiana, etica direi, che si esplica nella conservazione dell’esistenza propria o altrui attraverso la relazione curante-curato. Cura è azione, vigile e deliberata, mirante alla promozione del benessere dell’altro e non è quindi un moto dell’animo o uno stato emotivo.

Cura dell’altro e cura del sé quindi che, in quanto pratica, sviluppa le capacità proprie della cura stessa.
Cura non è quindi protocollo ma creatività, non presuppone diagnosi ma semplicemente esistenza. È difficile pensare alla cura dell’altro e del sé senza poter parlare di immaginazione e creatività Solo l’immaginazione può farci sentire il dolore di un altro (Rouseau, Emile), e solo l’immaginazione permette di vivere l’avventura della compassione quel cum patior che ci mette in contatto con quel che sentiamo quando l’altro (o noi stessi) soffre o gioisce, che fa intravedere ad entrambi la possibilità di cambiare posizione rispetto al dolore o di assaporare una gioia. Non esiste protocollo di sopravvivenza, esiste solo la speranza e una possibilità che può alimentarsi solo dell’esperienza di oggi.

Mi stupisce che in italiano la parola curatore abbia un’accezione prettamente legale o editoriale mentre curante è di solito abbinata alla figura di medico. Non esiste la parola per indicare colui che cura, che si prende cura al fuori di mansioni o di ruoli stabiliti. Anche la parola badante, riferita esclusivamente a colei che provvede a tutte le cure materiali che una persona anziana necessita, sottende un sorvegliare e non un prendersi cura (fatte le debite eccezioni, per carità) tant’è che spesso (e purtroppo per necessità) tali cure sono affidate a persone di altra lingua perché di fatto nel badare non è prevista relazione.

E se non c’è la parola non c’è il bisogno di dirlo, il nome di chi opera la cura non serve, è azione senza dignità e riguardo, non vale la pena nemmeno di essere nominata.
Ed allora il problema della cura mi sembra che possa ben definirsi un problema culturale e sociale. La cura, come l’amore, non è misurabile né quantificabile, non c’è potere ma capacità, non crea profitto ma qualità di vita e questa e non può essere rilevata con indici o altro, e per questo forse è impagabile e non è nemmeno nominabile.

E allora che la cura cominci a diventare una pratica quotidiana, del sé, dell’altro e dell’ambiente, e chi la agisce scelga il suo nome.

 

Redazione NuoveArtiTerapie
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