La tecnica del collage e il lavoro autobiografico

di Silvia Adiutori
“Pensare esige immagini, e le immagini contengono pensiero”- R.Arnheim

1.1 IL COLLAGE E LE SUE RISORSE TERAPEUTICHE
La parola “collage” viene dal francese e significa letteralmente “incollare”. Oggi si definisce con questo termine qualsiasi manufatto realizzato incollando su una superficie piana uno strato realizzato attaccando insieme elementi, anche diversi, come carta di giornale, carta da parati, illustrazioni o stoffa. Come tecnica artistica vera e propria il collage nasce all’inizio del novecento e fin dagli anni ’30 aveva interessato parecchi artisti, per la libertà espressiva che offriva attraverso l’uso di materiali insoliti e inusuali. Il collage rappresenta un significativo momento dell’arte, poiché, dopo l’esasperato sperimentalismo dell’Espressionismo, denuncia il desiderio di un recupero della materialità, l’aspirazione a restituire all’arte una sua connotazione anche fisica; si pensa insomma di recuperare un vero e proprio corpo a corpo con la materia dell’arte nei suoi aspetti più disparati, con un richiamo ed un aggancio alla realtà oggettuale, alla sua concretezza, ai suoi materiali. In arte terapia il lavoro con il collage si inserisce nell’area più ampia che utilizza i mediatori visivi (il disegno e la fotografia) come strumenti per la conoscenza di sé, l’espressione e la consapevolezza delle proprie emozioni. I motivi che spinsero gli artisti del novecento ad interessarsi al collage, possono dirsi in parte gli stessi che fanno della tecnica del collage una risorsa in arte terapia: infatti, l’uso di materiale concreto da modificare manualmente e la relativa facilità delle operazioni di realizzazione (scelta, taglio, composizione e incollaggio), rende questa tecnica adatta trasversalmente a più tipologie di persone e di contesti. La composizione di un’opera di collage è da una parte abbastanza facile da essere realizzabile da tutti, dall’altra il suo contenuto si rivela così ricco e suggestivo che permette di lavorare a fondo sui processi emotivi e percettivi dell’autore. D’altro canto l’Arte in sé non è un processo necessariamente terapeutico, ma è semplicemente una modalità di esistere dell’uomo che risponde a tre regole fondamentali: comunica, risponde a regole estetiche, ripresenta temi universalmente condivisi. Gli aspetti fantastici che emergono nel lavoro artistico nell’ambito della relazione d’aiuto, hanno un significato solo soggettivo ed espressivo, per evocare una comunicazione attraverso l’emozione, che dalle immagini può trasparire per essere letta da chi ne ha interesse esclusivamente nell’ambito della relazione terapeutica. L’uso del collage, così come degli altri mediatori artistici, è un trattamento d’elezione quando la patologia compromette la comunicazione verbale o le capacità d’introspezione, ma il suo valore può essere esteso in parallelo al trattamento psicoterapico tradizionale che poggia sulla parola e sull’introspezione, dove all’espressione non verbale si fa seguire un setting verbale destinato all’elaborazione dei contenuti, che sono stati espressi nel prodotto (siano esse maschere, musica, canto, danza, personaggio o collage). In generale i prodotti in Arte Terapia possono quindi essere utilizzati per conoscere meglio chi li fa e chi li riceve, nel complesso intreccio di meccanismi di difesa ed espressione della relazione transferale che passa per l’agito, anziché per la parola, un agito che non è però acting out, ma semplicemente comunicazione non verbale attraverso il sensibile. Per le sue caratteristiche di semplicità il collage è quindi particolarmente indicato nel lavoro con i soggetti più fragili: gli anziani, con cui si può per esempio sviluppare un lavoro legato alla memoria, persone con disabilità psicofisica, persone con disabilità specifiche come cecità (attraverso la scoperta tattile di materiale diverso) o difficoltà di parola (utilizzando l’immagine come modo alternativo di comunicare o comunque per ampliare ed arricchire il canale verbale), immigrati, reclusi e ovviamente bambini e adulti in situazioni critiche. L’aspetto più interessante del collage non è tanto la precisione dei rilievi o la qualità estetica dei lavori, quanto il grande potere immaginativo ed evocativo che viene reso dalla scelta dei diversi materiali, dalla tipologia di immagini e dalla loro particolare e unica combinazione, specchio della personalità dell’autore. A questo proposito, Arnheim (“L’immagine e le parole”) sottolinea la continuità esistente tra percepire, rappresentare, pensare e fare arte: secondo l’autore, infatti, nelle forme artistiche si condensa un significato che è reso percettivamente proprio perché l’artista (o comunque l’autore dell’opera in generale) non si limita ad individuare e selezionare certe qualità del mondo sensibile, ma determina anche un ordine e una struttura in cui le forme entrano in precisi rapporti e creano una particolare dinamica espressiva. Contrariamente alla teoria tradizionale, secondo cui la percezione visiva si limiterebbe a ricevere e registrare ciò che della stimolazione esterna arriva sulla retina, essa mostra invece di possedere notevoli capacità che vanno molto oltre la mera registrazione: anzitutto la percezione organizza gli oggetti che vede e li sistema in una determinata relazione, in più essa è finalizzata (cioè è diretta a cogliere le qualità degli oggetti che li rendono salienti per determinati scopi e in determinate circostanze) e in ultimo essa è selettiva (cioè è in grado di individuare i tratti essenziali degli oggetti rispetto al contesto in cui essi si trovano).Tutto ciò ha certamente a che fare anche con la dinamica del lavoro con il collage, che si può considerare una metafora delle funzioni percettive relativamente alla selettività (scelta dell’immagine “giusta” tra tante) e al modo personale di riorganizzazione degli elementi (posizionamento e incollaggio). Un altro concetto fondamentale sviluppato da Arnheim e particolarmente utile per la comprensione del lavoro con il collage, è quello di composizione che egli intende “come una disposizione di elementi visivi organizzati in una struttura in modo che la dinamica risultante rispecchi il significato della dichiarazione che l’artista vuole visualizzare sulla natura delle cose raffigurate”. Nel campo delle forme e dell’arte visiva, la composizione dipenderà dalla loro disposizione nello spazio, dalla sovrapposizione, dai colori, dall’inclinazione, ecc. Tutte queste relazioni tra le forme si caricano di significato dinamico sottolineando i nessi strutturali tra gli elementi visivi che nel lavoro terapeutico potranno essere ripercorsi svelandone il significato profondo. Ecco come un collage, con la sua particolare disposizione di frammenti che formano una nuova unità pregna di senso e specchio della personalità e della modalità percettiva dell’autore, può diventare un mezzo, per il terapeuta e il cliente, di lavorare sulle qualità affettive ed emotive dei bisogni messi in atto nel processo percettivo e artistico. Il collage utilizzato come mediatore artistico terapeutico quindi, è caratterizzato dal fatto che, pur restando invariata la procedura tecnica e artistica di realizzazione, sono i “ritagli” o inserti scelti ed il loro modo di combinarli insieme ad avere un valore speciale, proprio perché si tratta di “immagini” che riguardano da vicino, e che in qualche modo parlano, dell’autore o meglio del suo immaginario. Il foglio bianco che prepara al collage diventa lo schermo su cui proiettare fantasmi, paure, ricordi, una sorta di filo d’Arianna che conduce attraverso il labirinto dell’inconscio. Esso permette di mettere in scena la nostra fiaba interiore accedendo al nostro immaginario, lasciando tuttavia intatte le nostre difese. Il collage può funzionare infatti come una potente maschera: attraverso una immagine ci si può nascondere e permettere che essa parli in nostra vece. Si può in qualche modo quindi delegare all’immagine la comunicazione di emozioni profonde senza mettersi in gioco in modo diretto, se non nel momento cruciale della sua scelta. Compito del terapeuta sarà infatti facilitare un dialogo immaginario sia tra il cliente e il suo collage, sia tra i frammenti che lo compongono, lasciando che essi si esprimano, che parlino di loro, che facciano richieste l’un l’altro svelando conflitti e bisogni. In questo senso il lavoro di improvvisazione dei dialoghi fatto dai frammenti del collage è simile a quello che si usa nell’area teatrale, in cui la maschera del personaggio instaura quella distanza dalla persona che la indossa, ovvero che gioca il ruolo di quel personaggio, tale da poterle permettere di esprimere parti di sé celate e silenziose. Inoltre dal punto di vista strettamente psicologico attraverso le varie fasi della costruzione del collage: 1.la scelta dell’immagine, 2.la de-struttrazione (taglio o strappo della figura) e 3.la ri-configurazione dello scenario (che fino all’incollaggio può essere riposizionato all’infinito), permette di sperimentare, ri-creare, ri-organizzare, ri-configurare all’infinito nuove e diverse ambientazioni come possibili metafore di stati emotivi e di situazioni di vita.

1.2 IL COLLAGE E IL LAVORO AUTOBIOGRAFICO
“Le immagini da una parte sono il cemento che tiene a forza insieme i nomi e le cose, e dall’altra sono il terreno scivoloso che scompone questa presunta unità”- Foucault
Quelli che propongo di seguito sono due esempi di applicazione del lavoro con collage nella relazione d’aiuto: 1. L’autoritratto e 2. Il libro illustrato della vita. Entrambe le esperienze si possono comprendere nell’area terapeutica, molto ricca e varia, del lavoro autobiografico il cui scopo principale è quello di ripercorrere e rivedere, non tanto la realtà storica (cioè quali fatti sono esattamente accaduti nella nostra vita), quanto piuttosto concentrarsi sulla realtà narrativa, cioè sul particolare modo in cui ognuno di noi cuce insieme e attribuisce senso agli accadimenti del proprio passato e alle relazioni significative della propria vita. La narrazione autobiografica aiuta ognuno di noi ad attribuire significato alla nostra esistenza. Le forme che possiamo plasmare, le immagini che possiamo scegliere e combinare, e le parole con le quali possiamo narrarci trattengono l’esperienza e ci consentono di ripercorrerla. Le esperienze di costruzione autobiografica sono un’ occasione per dare corpo e forma a questi scenari interiori: attraverso frammenti di immagini e frammenti di scrittura si ricostruiscono i luoghi della memoria personale, dando loro nuova forma e nuova esistenza e permettendo di materializzare zone di sé in ombra. L’operazione di autonarrazione al mondo, ma soprattutto a se stessi, serve a dare un senso agli avvenimenti che ci accadono che diventano comprensibili solo se inseriti in una cornice di riferimento fatta di un tempo e un luogo, ovvero solo se inseriti in una trama narrativa. Attraverso la narrazione le esperienze della vita, che fondano la formazione del sé, trovano una coerenza e un senso; questa attribuzione di senso è sempre una attività di consapevolezza poiché il narratore deve operare continuamente una scelta, una selezione e un’organizzazione sia del registro narrativo, sia del materiale da inserire nella narrazione, sia del particolare modo di relazionare gli elementi tra loro che alla fine ne determineranno il senso ultimo. E’ abbastanza evidente come le attività che contraddistinguono la tessitura della narrazione di sé (così fondamentale per la costruzione dell’identità e per l’attribuzione di senso agli eventi che ci accadono), cioè la scelta e la selezione di alcuni elementi piuttosto che di altri dal panorama dello scorrere della vita, e la loro organizzazione in una unità coerente e personale, siano molto vicino alle attività di costruzione del collage. Esso si può in ultimo definire come una metafora in immagini ed una esplicazione della modalità di costruzione di senso che continuamente agiamo nella nostra vita, attraverso l’intreccio di trame narrative interiori.
Le sessioni di lavoro che presenterò sono state proposte ad un gruppo di adulti nell’ambito di un’esperienza di formazione esperienziale sui temi dell’arte terapia nella relazione d’aiuto. La metodologia di lavoro ha seguito, per entrambe le esperienze, le seguenti fasi:
1. scelta della postazione di lavoro e organizzazione del materiale da utilizzare: questa fase iniziale di preparazione che prevede il primo contatto con il materiale cartaceo, con la colla, con le forbici e l’assunzione della posizione seduta a terra, accompagna il partecipante verso un leggero stato di regressione infantile che apre la strada al lavoro intuitivo e creativo.
2. Dopo aver ascoltato la consegna del conduttore, i partecipanti si dedicano alla fase di ricerca e selezione delle immagini “giuste” da reperire tra tutto il materiale a disposizione.

E’ questa la fase più importante: cercare di capire quali immagini descrivono meglio lo stato d’animo che vorremmo rappresentare, e questa è la cosa che di solito è più interessante fare, farsi catturare dall’immagine senza riflettere molto cercando così di far lavorare la parte destra del cervello, quella più legata alla creatività. In generale, questa ricerca si può fare utilizzando riviste o cataloghi ma anche stampando da internet, mentre in altre situazioni, quando cioè si vivono stati di malinconia, rimpianto o si fa fatica ad elaborare una perdita, possono essere utili materiali personali come foto, vecchi biglietti, pagine di diario. Si possono utilizzare anche stampe di quadri famosi che possano suscitare importanti suggestioni ed emozioni. Quando si trova la giusta immagine essa va “prelevata” dal contesto cui appartiene attraverso lo strappo o il taglio, destrutturando quindi l’immagine originale. Spesso questa fase può essere accompagnata da sentimenti di leggero disagio o di euforia (a seconda della personalità di chi agisce), legata alla porzione di aggressività che si deve esercitare per distruggere qualcosa di stabilito e coerente come può essere un’immagine pubblicitaria o un tessuto.
3. Una volta raccolto tutto il materiale, si può passare alla fase di assemblaggio vera e propria. E’ sufficiente scegliere un supporto (nel nostro caso un grande foglio bianco) ed iniziare a sistemare le varie immagini prendendosi tempo per cambiare o spostare i vari accostamenti. Questo è un momento molto importante per il lavoro, è la fase creativa che più attinge al nostro immaginario e che lo mette in relazione con il mondo scegliendo di mostrarlo in una forma precisa. E’ la fase di riconfigurazione di un nuovo scenario, tutto personale ed autobiografico, la fase del dare senso e coesione che emotivamente funziona da riparazione creativa alla destrutturazione della fase precedente. Solo quando si è soddisfatti e si sente di aver trovato la giusta combinazione tra le immagini scelte si può incollare, ed in seguito è molto importante dare un nome al proprio lavoro in modo da riportare a livello di coscienza quello che si è fatto di istinto. Nonostante la facilità operativa del lavoro con il collage, alla fine di ogni sessione i partecipanti riportano spesso una sensazione di spossatezza e stanchezza data dalla difficoltà di autodeterminarsi in tutte le fasi del lavoro, cioè raccontano una sensazione quasi di vertigine data dalla possibilità di scegliere tra tanto materiale e di ricomporre lo stesso in una nuova unità che sia aderente alla loro verità narrativa. S., una partecipante del gruppo, relativamente al feedback sul lavoro con l’autoritratto, racconta questa sensazione con una metafora significativa: “E’ stato faticoso come nascere di nuovo, o come partorire, non so … qualcosa che ha a che fare con il delineare una forma di esistenza; dal magma indistinto delle immagini spingere il mio ritratto fuori, verso il mondo, visibile a tutti …”

Autoritratto di E.

Autoritratto di E.

1.3 L’autoritratto
Secondo Ferrari (“Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia”) il lavoro con l’autoritratto “riguarda prima di tutto il problema del rapporto dell’uomo con la propria immagine e dunque con la formazione e il sentimento della sua identità” (fig.1)

L’autoritratto è in generale un mezzo non solo per interrogarsi ed acquisire consapevolezza di sé, ma anche per migliorarsi e stare meglio con se stessi e con gli altri. Sempre con Ferrari, che si occupa di interrogarsi sulla valenza terapeutica dell’autoritratto fotografico: “il fascino e l’efficacia dell’autoritratto riguarda dunque il problema della nostra identità, che il suo gesto ripropone ogni volta da capo. È come se l’autoritratto fotografico concentrasse, proprio per la sua facilità e trasparenza, la relazione originaria con lo specchio; è come se, ponendoci, ogni volta come per la prima volta, davanti allo specchio potessimo scoprire un aspetto nuovo della nostra identità e al tempo stesso ne potessimo costruire una sempre diversa, ricreandola o inventandola di nuovo. Nella sua semplicità, che l’avvento del digitale ha reso ancor più immediata, l’autoritratto fotografico, proprio per la sua incredibile e automatica rapidità, conserva al tempo stesso una singolare gravità”. Nella pratica dell’autoritratto si stabilisce uno spazio speciale riservato alla soggettività del singolo, che proprio attraverso il suo triplice ruolo di autore, soggetto e spettatore, può arrivare a conoscersi meglio e in modo più approfondito. Un concetto fondamentale che Ferrari espone nel suo testo è quello di “plasticità dell’Io”, che per molti aspetti è insito nell’autoritratto, che ci riconduce alla possibilità che l’uomo ha di autorappresentarsi. Questa plasticità si manifesta sia in senso tecnico, in quanto l’autoritratto comporta una forma di “acrobazia” che obbliga il soggetto a sdoppiarsi e vedersi come oggetto, come altro da sé (e questo presuppone una disidentificazione rispetto all’immagine dello specchio, che secondo Lacan sta all’origine della formazione dell’Io), ma essa si pone anche alla base della ricchezza e molteplicità del sé e delle sue maschere. Tutte queste maschere infatti ci appartengono e tutte hanno l’esigenza di mostrarsi, facendo della pratica dell’autoritratto una palestra di “pluralità di vite”. L’idea di plasticità allude al fatto che, nonostante questi sdoppiamenti e nonostante queste moltiplicazioni (che potrebbero essere il segno di una scissione o di una dispersione), l’Io resta sostanzialmente coeso, in grado sempre di controllare e dirigere questi processi. Se così non fosse, l’Io non potrebbe procedere all’autoritratto, rimarrebbe diviso, annientato dal suo meccanismo e soprattutto sarebbe impossibile la ripetizione dell’autoritratto stesso. Il lavoro con il collage è ovviamente per molti aspetti diverso da quello con l’autoritratto fotografico poiché il soggetto-oggetto dell’opera va costruito, o meglio già esiste (infatti sono io), ma esso deve essere scovato, frammentato e ricostruito a partire non dall’immagine fedele dello specchio a cui posso scattare una foto, ma dalle immagini impersonali del materiale cartaceo a disposizione. Una volta terminato il lavoro si passa alla fase più delicata che consiste nell’esplorazione del risultato ottenuto; soffermandosi sulle risonanze che le varie immagini evocano in noi (cosa mi dice quell’immagine? Cosa mi ricorda?) oppure sugli accostamenti tra i vari elementi immaginando, magari, un ipotetico dialogo tra di loro. In sintesi: in questa fase è giusto guardare l’opera come un film o un fotoromanzo: con la massima sincerità possibile e cercando di dare attraverso il collage un senso allo stato d’animo di partenza cercando di dare un nome all’emozione che sale in figura dallo sfondo .

Fig.2- Fasi di costruzione dell’autoritratto di E.

Fig.2- Fasi di costruzione dell’autoritratto di E.

Ecco un esempio delle varie fasi di costruzione di un autoritratto con il collage (quello completo è raffigurato in fig.1), in cui si può notare il processo creativo con cui il partecipante ha dato forma al proprio volto, aggiungendo via via sempre più particolari (fig.2)

Riporto un altro esempio di costruzione dell’autoritratto con la tecnica del collage, diverso da quello precedente per scelta di colori, di forme, di priorità di assemblamento che rendono bene il senso delle diverse personalità dei due autori (fig.3).

Fig.3- Fasi di costruzione dell’autoritratto di F.

Fig.3- Fasi di costruzione dell’autoritratto di F.

Il risultato finale di questo collage è riportato in fig.4

La differenza più evidente tra questi due lavori è secondo me la diversità con cui gli autori si sono comportati nell’utilizzo del frammento: nel primo caso (l’autoritratto di E.) la natura originaria del frammento non è quasi più rintracciabile, quello che emerge è in effetti una immagine abbastanza chiara e armonica di un volto.

Fig. 4-Autotritratto di F.

Fig. 4-Autotritratto di F.

Nel secondo lavoro invece (l’autoritratto di F.) si nota come molti dei frammenti abbiano in sostanza mantenuto la loro identità e la loro riconoscibilità; sul volto principale, riconoscibile nei due occhi, nel naso e nella bocca abbastanza importante, si distinguono altri volti più piccoli, molteplici, che sembrano guardare l’osservatore in una pluralità di sguardi ed emozioni. Ovviamente non esiste un modo giusto o sbagliato per fare un collage (così come non esiste in nessun’altra esperienza artistica che sia finalizzata alla relazione d’aiuto), ma certo si possono sfruttare le differenze tra due o più lavori per creare spunti e riflessioni che servano ad aumentare la consapevolezza di sé, del proprio modo di autorappresentarsi e di rendersi visibile al mondo.
1.4 La costruzione del “Libro illustrato della vita”
Questa esperienza riprende più da vicino il lavoro autobiografico e utilizza sia immagini fotografiche personali che immagini cartacee pubblicitarie e altri materiali propri del collage. Il lavoro consiste nell’inventare una favola a partire dalla propria storia di vita seguendo i canoni che Propp (“Morfologia della fiaba”) aveva proposto come comune a tutte le fiabe: doveva cioè essere presente nella storia un eroe con una missione da compiere, un antagonista che ne contrasta l’agire ponendogli degli ostacoli, uno o più aiutanti che forniscono all’eroe modi magici per superare le difficoltà e la risoluzione del conflitto attraverso la riuscita dell’eroe nella sua missione. Questo modo di rivedere in modo fantastico la propria storia, trasformando le persone reali della vita (madri, padri, sorelle, fidanzati, mariti, nonni, ecc..) in personaggi fantastici con determinate qualità narrative (una madre può diventare nella storia un aiutante, magari per le sue qualità amorevoli, così come un antagonista, dipende…!) permette al cliente di lavorare sulla qualità delle proprie relazioni, di percepire risorse nuove o confermare quelle già conosciute delle persone significative della propria vita. In ogni caso, inventare una favola a partire dalle esperienze personali, significa dare origine ad un racconto nuovo che permette di lavorare su aspetti profondi del sé quali la responsabilità, la possibilità di aprire nuovi scenari, articolare nuove azioni e nuovi finali a copioni di vita spesso ripetuti all’infinito identici a loro stessi. Il nucleo fondamentale è sempre la distanza (creativa ed estetica) che il prodotto artistico (in questo caso una favola) instaura con l’evento accaduto per riorganizzarsi in forma narrativa. E’ in questo spazio fertile, in questa distanza che non è mai vuota, che è lo spazio della terapia, che si può fare esperienza di nuovi modi di sentire, di percepire, di riaprire e reinventare finali diversi. “Attraverso la narrazione della storia, non solo vengono comunicate le proprie emozioni, ma viene favorita anche la riconciliazione di parti frammentate del sé; il nominarle e il definirle produce l’acquisizione di consapevolezza, punto iniziale per una evoluzione che coinvolge l’intero sistema di sé attraverso il riorientamento” (Rossi, AAVV., Le immagini autobiografiche: una via narrativa alla percezione di sé”).
Una volta inventata la storia, i partecipanti devono illustrarla su più pagine utilizzando le foto e i frammenti di collage. Il lavoro con le foto personali è naturalmente più intenso dal punto di vista emotivo, soprattutto se la costruzione del personaggio della storia esige un taglio e una destrutturazione della fotografia. Certo è comprensibile come non sia la stessa cosa tagliare una testa (anche se solo in foto!) a qualcuno che è significativo e importante piuttosto che ad un volto anonimo della pubblicità. Ma questa sorta di oltraggio che ha qualcosa di sacrificale, è necessario affinché, attraverso il gesto creativo, le persone ritratte diventino personaggi, allontanandosi dalla verità storica in cui sono inseriti per integrarsi in quella narrativa e fantastica, pur mantenendo il colore della relazione emotiva che lo lega all’autore, e creare così quello spazio, quella distanza, che come dicevamo è necessario per il lavoro terapeutico. Ma la narrazione ha anche bisogno di un ascoltatore, di un testimone. Così, alla fine del lavoro, dopo aver rilegato i libri illustrati, chiedo ai partecipanti di condividere con il gruppo la storia, raccontando ogni pagina illustrata.
“L’attività narrante si completa e acquista senso solo se c’è un ascoltatore della narrazione. Non è sufficiente, infatti, che qualcuno narri se non c’è nessuno che ascolti ciò che sta narrando. All’intenzionalità di chi racconta, quindi, è sempre indispensabile si leghi l’intenzionalità di chi sta ascoltando quel racconto (un libro ha bisogno di un lettore per diventare narrazione, così come il diario ha bisogno del mio ascolto affinché mi narri qualcosa)” (Rossi, AAVV., Le immagini autobiografiche: una via narrativa alla percezione di sé”). Chiedo anche di raccontarla in un modo speciale, che sia veramente come una favola che si racconta ai bambini, con enfasi, e tentando di ammaliare il pubblico. E’ solo in questo momento che spesso emergono le emozioni di rispecchiamento e di riconoscimento; nel momento cioè in cui la storia si libra

 Fig.5 - Dal libro della vita di N.


Fig.5 – Dal libro della vita di N.

nell’aria, che prende il volo per toccare i cuori degli altri, l’autore può vederla riflessa negli occhi di chi ascolta, riincontrando se stesso, le proprie emozioni, la propria vita. Nella sequenza di foto seguenti riporto alcune pagine tratte dal “libro illustrato della vita” di N. (fig.5), dove si vede come l’autore abbia scomposto delle foto personali e le abbia integrate in scenari nuovi creati con il collage, inserendole così nel tessuto narrativo della storia inventata.

 

2. CONCLUSIONI
Lo scopo principale dell’utilizzo della tecnica del collage nel lavoro descritto, ha riguardato quindi la possibilità di mettere in scena la propria fiaba interiore rubando frammenti e immagini alla pagina stampata e la possibilità di assemblare immagini e rielaborarle, ha permesso di creare una sorta di filo d’Arianna da poter utilizzare come guida nell’esplorazione del proprio immaginario.

SILVIA ADIUTORI – Psicologa, psicoterapeuta, arte terapeuta.

BIBLIOGRAFIA
• Arnheim R., “L’immagine e le parole”, ed. Mimesis, Milano 2007
• Ferrari S., “Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia”, ed. Laterza, Bari-Roma 2002
• Propp V. J., “Morfologia della fiaba”, ed. Einaudi, Torino 2000
• Rossi O., AA.VV., “Le immagini autobiografiche: una via narrativa alla percezione di sé” INformazione Psicoterapia Counselling Fenomenologia”, n°4 novembre – dicembre 2004, pagg. 14-23, Roma

Tags:
Redazione NuoveArtiTerapie
nuoveartiterapie@gmail.com