25 Lug L’esperienza di un atelier
Nino Costa
“Voglio ascoltare l’eco
che rimbalza sui sassi del torrente,
sugli aghi degli abeti…
e mi libera voli di ricordi”
Gildo DM

Ex portineria degli anni ’50 riadattata ad atelier
All’ospedale privato “Villa Igea” di Modena si è cominciato a parlare di atelier (il termine di derivazione francese indica un mucchio di “assicelle di legno” e per estensione “cantiere”) quando, intorno alla metà degli anni ’80, si è allestito una sorta di cantiere, utilizzando uno spazio separato dai reparti, immerso nell’area del giardino, corrispondente ad un edificio che fino a quel momento aveva svolto funzione di portineria.
Tale edificio, costruito intorno a un grande platano, sembrava particolarmente adatto per un’iniziativa come questa, che intendeva collocarsi simbolicamente in una zona intermedia tra il reparto e la dimissione, offrendo ai pazienti la possibilità di “fare le prove della realtà”.
Trovata la sede, occorreva una componente essenziale, la motivazione, e a questo riguardo le circostanze furono favorevoli.
Nel 1987, in occasione del cinquantenario della fondazione, a “Villa Igea” fu indetto un convegno al quale partecipò Paul C. Racamier, autore di un testo – “Lo psicoanalista senza divano” – di fondamentale importanza per l’approccio psicoanalitico alle psicosi, con interessanti riflessi sul piano delle applicazioni terapeutiche. In quella occasione, parlando del “delirio”, egli intese mostrare come i pazienti cerchino ostinatamente attraverso questa modalità irrazionale di “re-inventare il mondo”, mossi dal bisogno di dare una fisionomia personalizzata alla realtà circostante, come fanno del resto gli artisti nelle loro creazioni rappresentando aspetti del mondo a misura della loro immaginazione.
A quell’epoca inoltre, Gino Zucchini, psicoanalista di Bologna, teneva a “Villa Igea” apprezzati seminari di studio a cadenza mensile, discutendo su casi clinici e sulle dinamiche istituzionali della presa in carico. Egli soleva enunciare il principio secondo cui “un’istituzione psichiatrica che vuole avere un volto umano, che vuole presentare lealmente la sua faccia ed essere rispettosa dei pazienti, li accoglie senza incarcerarli e li dimette senza abbandonarli”.
La cultura psicoanalitica aveva permeato di entusiasmo la quotidiana operatività psichiatrica sollecitando alcune iniziative volte a smuovere l’inerzia della patologia psicotica e le innumerevoli opposizioni al cambiamento terapeutico.
Da questi stimoli è nata la determinazione di attuare un progetto riabilitativo per pazienti seriamente compromessi nelle loro capacità relazionali con rilevanti problemi nel reinserimento sociale. Oltre ad un’elevata disponibilità umana, un simile progetto richiedeva l’acquisizione di competenze: si sono rivelati all’altezza di tale difficile compito due infermieri di solide capacità, con abilità tecnico-artistiche, che si sono dedicati a tempo pieno alle fasi preliminari dell’iniziativa, dopo aver appreso conoscenze specifiche frequentando un corso di animazione.
Dal 1987 per oltre 10 anni l’edificio è diventato dunque sede di un atelier, condotto da un’équipe composta da operatori sanitari con competenze diversificate: psicologa, assistente sociale, infermieri professionali, esperti nell’approccio riabilitativo ed in particolare nell’arte terapia. L’esperienza centrale, cui fanno riferimento queste annotazioni, è quella di un piccolo gruppo (8/10 persone), con una frequentazione di 2 ore per 3 incontri settimanali e la supervisione settimanale di uno psichiatra.
La stessa collocazione spaziale dell’edificio, in una posizione defilata rispetto all’area dei reparti, ha in un certo senso facilitato il compito previsto di aiutare i pazienti nella riconquista di abilità perdute, attraverso attività, come l’arte terapia, che non sarebbe stato possibile allestire negli spazi abituali della degenza. L’identificazione delle necessità di ogni partecipante ha richiesto tempo, con un approccio insieme accogliente e propositivo senza assillo. Ogni attività promossa all’interno era tesa a valorizzare la parte sana delle persone, a far riemergere il patrimonio di capacità sopite, stimolando l’iniziativa personale. L’ambientazione, costituita da uno spazio unico, ha facilitato l’immediatezza del contatto, creando un’atmosfera calda di comprensione, all’interno della quale si è privilegiato la comunicazione mediata dal “fare”, da attività il più possibile personalizzate sia a livello dei materiali utilizzati che per l’impegno richiesto.
Si è visto che attività come la pittura, la manipolazione della creta, la composizione del mosaico ed il collage, particolarmente utili in soggetti con angoscia di frammentazione, possono avere diverse funzioni: liberare sentimenti ed energie vitali, stimolare fantasia e creatività, favorire la comunicazione con gli altri, sospingere verso la collaborazione in gruppo. Ovviamente si è reso necessario un reciproco adattamento tra l’operatività con le sue regole di convivenza e le aspettative di ciascun individuo.
Infatti, tutte le attività hanno richiesto l’acquisizione di abilità, con un periodo preliminare di apprendimento, in se stesso utile come messaggio realistico.
E’ parso evidente che la manipolazione degli oggetti e il contatto fisico con i materiali diventano terapeutici quando nella varietà di situazioni fruibili nell’arte terapia sono in grado di valorizzare l’esperienza, la pratica delle cose per prova personale, diversamente da come opera il pensiero psicotico nella sua propensione al dilagare senza i limiti della realtà.
L’assunzione di responsabilità da parte dei soggetti nell’uso dei materiali e degli utensili è stata facilitata dall’attenta presenza degli operatori e dalla condivisione dell’ambiente con una valenza educativa ulteriore.
L’acquisita dimestichezza nell’uso delle attrezzature ha poi aumentato l’autostima di ciascun paziente, che ha potuto valutare in concreto le proprie attitudini e capacità, estrinsecate nelle varie fasi della produzione artistica, nella progressiva trasformazione dei materiali grezzi, sino alla gratificazione dell’obiettivo raggiunto nel prodotto finito.
Come spesso accade, l’operatività di un gruppo di lavoro tende a svolgersi all’interno di un arco temporale definito, mentre nascono nuove esigenze e gli operatori stessi vengono sollecitati da altre esperienze.
Nel ’98 peraltro l’edificio è diventato obsoleto, ponendo cospicui problemi di adattabilità tra la parte muraria e la crescita della pianta; inoltre, la necessità pratica di spazi più confortevoli ha consigliato l’inserimento dell’atelier nell’area del Day Hospital, mentre il gruppo di lavoro si è sostanzialmente modificato nei suoi componenti.
Le “attività espressive” dei pazienti sono attualmente seguite da laureate in tecnica della riabilitazione psichiatrica e da infermiere professionali, con il coordinamento della psicologa che aveva operato in precedenza, in costante rapporto con gli altri operatori del Day Hospital nell’ambito di un’articolata programmazione riabilitativa
Di quella felice esperienza, durata un decennio, si è mantenuto tuttavia lo spirito, a tal punto che alcune metodologie d’impronta artigianale sono diventate una vera e propria tradizione:
– la realizzazione del mosaico attraverso l’uso di materiali inconsueti quali “sementi” di diverso colore, molto apprezzato dai pazienti, o produzioni tramite materiali di scarto di vario genere;
– la messa in cornice delle creazioni artistiche, con il vantaggio di un’attività supplementare in grado di valorizzare al meglio i quadri dei pazienti.
Questa pratica peraltro offre ai pazienti l’opportunità di prendere visione e consapevolezza della distinzione tra ciò che sta dentro la cornice e ciò che sta fuori, tra il contenuto, frutto della fantasia, dove tutto può essere rappresentato, anche nel modo più eccentrico, e il mondo della realtà che necessariamente deve soggiacere a regole condivisibili.
In sintesi vengono ora riportate alcune riflessioni evocate dall’esperienza raccontata, in un ideale confronto con letture illuminanti.
L’arte terapia è una forma di terapia non verbale che utilizza la mediazione dell’operatività artistica secondo la concezione di D. W. Winnicott dell’oggetto transizionale. Nella dimensione inter-soggettiva il prodotto artistico è contemporaneamente un fattore di unione e un fattore di separazione che favorisce l’autonomia.
La definizione “terapia non verbale”, ormai diventata di uso corrente, vuole specificare che, a differenza della psicoterapia, l’investimento prioritario non è centrato sulla parola. In realtà gli scambi verbali sono importanti, comportano misura e delicatezza: nell’interazione con i pazienti non è richiesta agli operatori solo una competenza di tipo artigianale ma anche un uso sapiente della comunicazione.
La funzione dell’arte terapeuta si può definire come assistenza partecipe alla creazione del paziente.
E’ acquisito che il disegnare aiuta ad organizzare meglio il pensiero – si usa dire che un “disegno vale quanto mille parole” – con la conseguenza che pazienti chiusi in se stessi possono uscire dal loro ermetismo mostrando qualcosa di sé attraverso “rappresentazioni figurative”, proteggendo al contempo la propria interiorità da eccessive intrusioni.
Gli operatori imparano a condividere con il paziente l’esperienza del “fare arte”, non solo incoraggiando chi è restio ad esporsi, ma contenendo chi è portato ad eccessi, ammaestrando soprattutto sul miglior uso delle tecniche e sugli inevitabili vincoli dettati dalla tipologia dei materiali.
“La creatività è uno dei mezzi principali attraverso i quali l’uomo si libera dai condizionamenti, ma non si tratta semplicemente di originalità e libertà illimitate, dal momento che impone anche restrizioni. Nelle arti figurative il processo creativo prende avvio da una sorta di illuminazione che sospinge al primo disegno o abbozzo di lavoro ed in questo sembra avere preminenza il funzionamento mentale più aderente all’inconscio, mentre il completamento richiede adesione al principio di realtà. L’artista ha una capacità di creare immagini paragonabile a quella del sognatore e attraverso sintesi imprevedibili riesce a tradurre nella sua operatività qualcosa di magico, in tal modo l’opera d’arte non si limita a trasmettere un’informazione ma induce alla condivisione di un piacere estetico” (S. Arieti).
Come ricorda P. Caboara Luzzatto, “il concetto di crescita psichica presuppone uno spazio psichico, detto anche mondo interno, che contiene – per ogni individuo – stati d’animo, ricordi, pensieri, emozioni, speranze, potenzialità. Lo spazio psichico, paragonabile a quello biologico, nel suo dinamismo ha bisogno di uno scambio continuo con il mondo esterno e per il suo miglior sviluppo richiede condizioni ambientali adeguate”. Secondo W.R. Bion “si impara dall’esperienza”: i fenomeni osservati si trasformano in pensieri dotati di significato crescente quando si attiva una funzione mentale (funzione alfa) capace di organizzare la molteplicità delle afferenze sensoriali, sulla base di esperienze emotive ricche di risonanze intime all’interno di una relazione contenitore-contenuto. L’esperienza estetica sembra idonea a stimolare l’apertura della mente verso la conoscenza; in tal modo si può pensare di contrastare l’operazione regressiva della psicosi, che tende invece alla perdita di senso e alla distruttività.
L’arte terapia non può essere una strategia terapeutica per tutti, occorre una quota di specifica propensione, non è praticabile nella fase acuta dello scompenso psicotico (quando l’angoscia che frammenta è dirompente o quando il dolore sommerge l’Io annichilendo lo slancio vitale) ma può diventare di grande utilità nel delicato momento del recupero, nell’ambito propriamente riabilitativo.
Può risultare particolarmente efficace in pazienti che traggono poco vantaggio dal colloquio, che hanno difficoltà ad esprimersi con il linguaggio, che patiscono il confronto diretto, che hanno bisogno di modalità alternative di comunicazione, di un rapporto veicolato da “oggetti mediatori della relazione terapeutica”.
In conclusione, vorrei ricordare che nel 2003 l’edificio sede di atelier è stato ristrutturato in funzione di uno spazio museale. Prendendo alla lettera la parola museo, che significa luogo sacro alle muse, è lecito fantasticare che il mito di Igea, la dea della salute alla quale s’ispira questo luogo di cura, abbia prodotto un “anelito salvifico” che ha consentito di salvaguardare insieme all’edificio tanti dipinti realizzati negli anni di attività dell’atelier, come evidenziato da alcune riproduzioni.
L’architetto che si è occupato del difficile restauro, che ha richiesto accurate strategie d’intervento per il reciproco adattamento tra le esigenze naturali dell’albero e le necessità di costruzione (statica, luminosità, pavimentazione), ha pensato ad arredi, come le mensole, atti ad accogliere esposizioni rinnovabili nel tempo, a significare il desiderio di apertura verso il futuro serbando contemporaneamente il ricordo del passato, come attesta la stessa denominazione “L’albero della memoria”.
NINO COSTA psichiatra, psicoterapeuta, svolge attività libero professionale a Modena. Collabora al corso di Laurea in Tecnica della riabilitazione psichiatrica come docente in Psicologia dinamica presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, ove ha ricoperto il ruolo di contrattista in Clinica delle malattie nervose e mentali, di ricercatore all’Istituto di Medicina Legale. Ha fondato e diretto la Comunità residenziale “Il Borgo” dell’Ospedale privato “Villa Igea”.
Bibliografia
Arieti S., Creatività: la sintesi magica. Ed. Il pensiero scientifico. Roma, 1979
Bedoni G., Tosatti B., Arte e Psichiatria. Ed. Mazzotta. Milano, 2000.
Bion W.R., Apprendere dall’esperienza. Ed. Armando. Roma, 1972.
Caboara Luzzatto P., Arte Terapia. Ed. Cittadella. Assisi, 2009.
Denner A., Malavasi L., Arte terapia: metodologia e ricerca. Ed. del Cerro, Tirrenia (Pisa), 2002.
Giordano E., Fare arte terapia. Ed. Cosmopolis, Torino, 1999.
Racamier P.C., Le psychanaliste sans divan. Ed. Payot, Paris, 1983.
Winnicott D.W., Dalla pediatria alla psiconalisi. Ed. Martinelli, Firenze, 1975.
Zucchini G., Quale psicoanalisi per quale psichiatria? (e viceversa). In Atti del Convegno “La cultura psicoanalitica” 5 – 8 dicembre 1985. Ed. Studio Tesi. Pordenone, 1987.