Manifesto per un’arte diversabile

Quando un individuo privo di cultura artistica
e quindi libero da obiettive conoscenze estetiche
dipinge qualcosa, non ne viene mai fuori
una vuota apparenza.
(Kandinskij, 1912)

E’ possibile pensare a un laboratorio artistico per persone con disabilità intellettiva come luogo di realizzazione di opere d’arte? Possono individui con deficit intellettivo, anche grave, creare oggetti degni di un serio giudizio estetico? Può un’arte diversabile ambire a un capitolo proprio nella storia dell’arte?
Gli argomenti che seguono aspirano a dare a tali quesiti una risposta affermativa, proponendo una giustificazione storica, una legittimazione estetica e una specificazione pratica dell’arte diversabile.
All’interno della cornice concettuale dell’ICF – Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (OMS, 2002), il proposito è dimostrare il valore dell’attività e i vantaggi della partecipazione di persone diversabili nell’universo delle arti figurative contemporanee, sottolineando l’azione di arricchimento che il loro contributo può offrire all’intera società civile.
Si inizierà dando uno sguardo alla recente storia dell’arte.

Aspetti evolutivi
Argan definisce l’Arte come “il sistema che inquadra l’esperienza estetica della realtà” (Argan, 1971, p. 605). Tale definizione è al contempo generale e sintetica e si presta bene a includere tanto le belle arti dell’antichità, quanto le arti plastiche del ‘900. Queste ultime hanno spesso creato seri problemi a critici e spettatori per stabilire una linea di demarcazione tra ciò che può definirsi arte e ciò che non lo è. Un carattere comune dell’arte dell’ultimo secolo è infatti quello della rottura/innovazione (Riout, 2002): il rovesciamento, la negazione, la dissoluzione dei canoni espressivi tradizionali, la ricerca di linguaggi e procedimenti nuovi e originali, che spesso disorientano chi guarda, ma che innescano movimenti propulsivi in grado di assimilare nel discorso artistico oggetti, strumenti e modi in precedenza ad esso estranei.
Senza pretesa di sistematicità e solo a scopo esemplificativo, si ricorderanno alcuni degli aspetti più significativi di tale evoluzione.
Per l’arte della prima metà del XX° secolo (Poli, 2007):
• superamento della prospettiva rinascimentale come metodo di rappresentazione della realtà tridimensionale, in primis da parte del Cubismo e del Futurismo;
• superamento della pittura come principale medium espressivo: papier collés e collages (Picasso e Braque), oggetti reali d’uso quotidiano e materiali di scarto (Dada, Informale), Ready-made (Duchamp);
• rinuncia alla pratica della mimési, ovvero dell’imitazione del mondo naturale, a partire dai primi esponenti dell’Astrattismo (Kandinskij, Malevic, Mondrian), fino al tentativo di superare l’opposizione astratto-figurativa con opere che eludono il concetto stesso di rimando simbolico della rappresentazione (Informale);
• rinuncia al ruolo della coscienza nell’atto creativo, dall’automatismo psichico del Surrealismo, all’Action Painting di Pollock;
Passando alle correnti successive (Poli, 2005):
• messa in discussione dei ruoli di artista e spettatore, con proposte di partecipazione dello spettatore al processo creativo (Pistoletto, Beuys, Gonzalez-Torres), di vere e proprie creazioni collettive (Happenings), fino a soluzioni esplicitamente provocatorie volte a smascherare la funzione autopromozionale dell’idea stessa di artista (Manzoni), o dichiaratamente liberatorie del potenziale artistico dei non-artisti (Art Brut);
• superamento della staticità dell’immagine, con la manipolazione della dimensione temporale (Video Art); la durata dell’opera limitata al tempo della sua rappresentazione (Performance), o il suo trasformarsi in funzione di agenti esterni (Process Art).
• apertura dei confini fisici dello spazio rappresentativo, dall’inserimento degli ambienti vuoti e della luce (Fontana), alla manipolazione di scenari del mondo naturale (Land Art), fino all’utilizzo del corpo stesso dell’artista come oggetto di rappresentazione più o meno cruenta (Body Art).
In poco meno di cento anni l’arte contemporanea ha messo in crisi tutti i fondamenti della tradizionale idea di rappresentazione figurativa, spingendosi ripetutamente oltre i suoi confini con sperimentazioni audaci, provocatorie e paradossali. Un solo elemento è rimasto idenne da tale rivoluzione: l’esercizio dell’intelletto.
L’arte del ‘900 si caratterizza complessivamente per un massiccio ricorso all’elaborazione intellettuale come mediatore elettivo della genesi e della fruizione dell’opera: complesse allusioni concettuali di ogni singolo elemento figurativo, manifesti programmatici per annunciare stili e tendenze, dibattiti e scontri tra scuole di pensiero, ricerca della provocazione per incidere sulla società in senso etico più che estetico, e altro ancora. Tutto questo è stato proposto attraverso il dominio della facoltà umana di manipolare simboli complessi, esplorare significati astratti, perseguire obiettivi più o meno strategici.
Ma l’intelletto è davvero indispensabile ai fini della realizzazione di un oggetto estetico? La risposta sarà decisamente: no!
L’oggetto estetico può essere indubbiamente il risultato di un complesso processo di elaborazione, ma le sue proprietà visibili emergono altrettanto certamente dall’atto primordiale di manipolare materiali per lasciare tracce visibili fini a sé stesse. Tale atto può essere pensato come anteriore a ogni funzione strettamente intellettiva, qualcosa di attinente una dimensione senso-motoria, vicino concettualmente alla reazione circolare terziaria descritta da Piaget: un comportamento intenzionale ripetuto e variato sul mondo esterno volto a sperimentare i suoi effetti su di esso (Petter, 1961). Questo genere di comportamento costituisce il primo vero livello di rapporto intenzionale dell’individuo con l’ambiente esterno, la prima volta in cui un atto motorio diventa azione, cioè atto motorio governato da uno scopo. In esso il fine precede il mezzo e quest’ultimo viene individuato attraverso una ricerca esplorativa dei materiali disponibili. Il comportamento segue una logica di prove ed errori in cui le soluzioni migliori, le più gradite, vengono sperimentate e scelte concretamente sul campo. In questo senso, lasciare una traccia visibile della propria azione sul mondo è niente più che un caso particolare di un livello più generale di manipolazione d’oggetto: tale azione verrà assunta come premessa necessaria e sufficiente per la realizzazione di un oggetto estetico.
Inoltre, se quanto detto accade normalmente a un bambino di circa un anno, può accadere similmente a una persona con disabilità intellettiva che abbia raggiunto un livello di sviluppo mentale equivalente, ma con la differenza sostanziale che quest’ultima avrà un bagaglio di esperienza e di vita corrispondente alla sua età cronologica. Questo aspetto, malgrado tutto, rappresenterà un vantaggio dell’adulto disabile sul bambino, almeno ai fini della realizzazione di un oggetto estetico che sia libero dall’esercizio dell’intelletto. Del resto, chi meglio di una persona con disabilità intellettiva può esprimersi fuori dai condizionamenti normativi del giudizio critico, della programmazione razionale e della logica? Chi, se non colui che è per definizione deficitario nelle funzioni psichiche superiori, potrà liberamente lasciare tracce estetiche di sé che non siano il risultato di un coinvolgimento concettuale?
Per tutto questo, l’arte diversabile si candida a demolire l’ultimo baluardo sopravvissuto della tradizione e rivendica a sé il diritto di competere a pari merito con le precedenti e contemporanee manifestazioni artistiche della modernità.
Ma cosa resta dopo la profanazione del dogma dell’intelletto? Cosa fà si che un semplice oggetto figurativo diventi opera d’arte?
Si proporranno quattro criteri per la sua definizione: tre estetici e uno procedurale. I primi sono validi per ogni opera d’arte e giustificano l’inclusione dell’arte diversabile nel novero delle restanti tradizioni figurative; l’ultimo è proprio solo di essa e ne definisce il carattere specifico e l’originalità.

Aspetti estetici
Le condizioni estetiche per il riconoscimento di un’opera d’arte nella produzione figurativa di una persona diversabile saranno individuate in tre concetti chiave, legati ma distinti: intenzionalità formativa, legge di coerenza ed esperienza estetica, rispettivamente riferite all’autore, all’opera e allo spettatore.
L’intenzionalità formativa (Pareyson, 1988) è quell’atto di volontà che aspira ad agire sulla materia per inventare e produrre una forma. Essa coglie un evento, stimolo ambientale o moto interiore, e lo trasforma in uno spunto, operando su di esso per sviluppare una creazione figurativa, che ha per contenuto la vita e l’esperienza personale del suo creatore. L’intenzionalità formativa è l’impulso che avvia e accompagna la realizzazione dell’opera, nella cui forma cerca e trova la riuscita del suo movimento e nella cui bellezza lo scopo della sua azione. E’, dunque, sia condizione di esordio che fattore di mantenimento del fare artistico.
Da ciò derivano alcune importanti conseguenze.
In primo luogo, tra la persona che fa arte e il suo modo di formare c’è sempre una relazione di interdipendenza, tale che ogni cambiamento occorrente alla prima produce uno o più cambiamenti nel secondo, e viceversa. Ciò che emerge da questa relazione è lo stile: esso rappresenta il tratto distintivo e caratterizzante dell’azione formativa di un individuo, quell’evidenza che rende la sua opera riconoscibile in mezzo ad altre e che rinvia direttamente alla sua storia personale. Nel caso di persona con disabilità intellettiva, lo stile non potrà in nessun caso richiamare scuole, tendenze, tradizioni; non sarà mai il precipitato di una formazione accademica, lo sviluppo di un discorso pubblico e istituzionale. Bensì, sarà riconducibile alla singolarità di quella persona e alla unicità e spontaneità del suo atto formativo. Meno determinato dagli apprendimenti di genere, lo stile formativo di costui rispecchierà più verosimilmente i suoi propri modi di funzionamento, generalmente descrivibili in termini di:
• concretezza: come modalità legata al dato percettivo, alla materialità, all’apparire e scomparire delle immagini, alla causalità fisica che lega ogni gesto con il mondo esterno;
• grossolanità: come tendenza all’approssimazione, alla semplificazione, alla stilizzazione;
• perseveranza: come ripetizione più o meno prolungata e variata di un dato modello.
In secondo luogo, il soggetto formante sceglie una materia, strumenti, tecniche con cui formare e da formare. La scelta della materia non è mai casuale e non può essere sostituita con qualcos’altro. La riuscita dell’opera dipende dalla risoluzione del rapporto tra persona formante e materia formata, dalla tensione tra intenzionalità della prima e resistenza della seconda. L’esito è in ogni caso imprevedibile, anche dal punto di vista dell’autore, che non sa mai in anticipo quale sarà il risultato del suo operare. A maggior ragione, nel caso di persona con disabilità intellettiva, la riuscita dell’opera assumerà un carattere del tutto fortuito, giacché nessuno più di questi è lontano dal mito del genio, che tutto forma in ragione del suo talento, o del maestro, che sempre domina la tecnica piegandola alle esigenze della sua espressione. E sarà per questo che tale persona dovrà preliminarmente esplorare la materia ed essere esposta alla più vasta gamma di soluzioni tecniche possibili: colori, pennelli, tele, carte, colle, foglie, pietre, terre, sabbie, liquidi, oggetti d’uso comune, ecc.
Ma ciò è solo premessa alla realizzazione dell’opera d’arte. Questa, per esser tale, dovrà aver rispettato una legge di coerenza. Ovvero, quella proprietà che lega le parti tra loro e ogni parte col tutto, l’attributo emergente della forma che ne sancisce il significato complessivo, ciò che consente allo spettatore di contemplare un’immagine unitaria e globale. Nella misura in cui “l’opera è la persona stessa dell’artista diventata tutta oggetto fisico” (Pareyson, 1988, p. 103), la legge di coerenza sarà il mediatore più efficace per il rispecchiamento della persona nella sua univocità e totalità. Essa rende chiaro come nessun elemento rappresentato potrebbe mancare all’equilibrio del tutto e come nessuna variazione potrebbe occorrere senza distruggere l’ordine generale della forma.
Non si dovrà però considerare la legge di coerenza come una manifestazione del puro ingegno, una scoperta dell’intelletto, il frutto di un virtuosismo, il risultato di una tecnica padroneggiata consapevolmente che assembla con ordine i singoli pezzi alla luce di una superiore istanza organizzatrice. La legge di coerenza riporta a una dimensione essenzialmente iconica dell’opera, visibile attraverso le leggi di organizzazione percettiva della Gestalt (Wertheimer, 1938); è il fattore connotativo della materia formata, il principio di raggruppamento degli elementi nell’intero che viene colto con uno sguardo e che suscita un’elaborazione preconcettuale e prelinguistica. Solo in questo senso, il lavoro di una persona diversabile potrà essere informato da tale proprietà, che non dovrà nella fattispecie indurre a una ricerca di simmetria, equilibrio e ordine, pilastri del tradizionalismo estetico, giacché uno stile formativo concreto, grossolano e perseverante genererà più verosimilmente una legge di coerenza della sproporzione, dello sbilanciamento e del caos.
E’ però evidente che la legge di coerenza non è un mero attributo dell’opera, dell’oggetto in sé, esistente per sé stessa come un’entità metafisica. Essa appare solo laddove uno spettatore la osserva, solo in funzione di un rapporto comunicativo tra oggetto e soggetto, solo quando un altro individuo si sofferma nella contemplazione della materia formata. E ciò introduce alla terza condizione per la definizione dell’opera d’arte: l’esperienza estetica di colui che guarda.
L’esperienza estetica è quel fenomeno soggettivo che trasforma una percezione in una espressione, che moltiplica la qualità rappresentativa di un oggetto da semplice stimolo visivo a complesso messaggio simbolico, che muta un segnale neutro in un oggetto emozionale. In essa svolge un ruolo importante l’attribuzione di significato, che è per definizione un evento aperto: l’unicità dell’esperienza di ogni spettatore rende specifico e complesso il suo modo di osservare e molteplici e imprevedibili i percorsi del suo giudizio; inoltre, l’atto di osservare un’opera si inserisce nella indeterminatezza di quel “coefficiente d’arte”, che è lo spazio fluido compreso tra ciò che l’autore aveva progettato di fare e ciò che alla fine ha realizzato (Duchamp, 2005). Così, il giudizio di chi osserva rispecchia il tentativo di determinare un ordine di senso attraverso una nuova creazione di significato, in gran parte autonoma dalla natura dell’oggetto. Per questo, dal punto di vista strettamente cognitivo, non può esserci un nesso diretto tra forma e significato.
Tuttavia, lo spettatore non è solo un sistema cognitivo, ma anche un corpo biologico che, pur nella sua specificità, funziona secondo leggi e processi pressoché stabili tra individuo e individuo. L’indagine sull’esperienza estetica per un’arte diversabile si concentrerà dunque su questo aspetto, sul comune denominatore neuropsicofisiologico da cui si apre il ventaglio polisemico del giudizio.
Il concetto centrale è quello di empatia estetica, che sarà definita come la risposta di immedesimazione dello spettatore con l’oggetto figurativo osservato, fenomeno vissuto come risonanza psicofisiologica in grado di suscitare un’esperienza emozionale.
Per capire meglio, faremo riferimento ai neuroni specchio, le cellule nervose recentemente scoperte che si attivano ugualmente nell’esecuzione di un atto motorio e nell’osservazione dello stesso da parte di un altro individuo, nonché di oggetti statici potenzialmente coinvolti in quell’atto (Rizzolatti & Sinigaglia, 2006). Dalla scoperta rivoluzionaria di tali cellule è possibile pensare per la prima volta a un unico sistema di elaborazione delle informazioni che coinvolge in una sintesi elementare due termini del funzionamento umano tradizionalmente ritenuti distinti, benché comunicanti: percezione e azione. Tale sistema fornisce all’individuo una base biologica per la comprensione degli stati emotivi e intenzionali dell’altro, poiché elabora su uno stesso circuito nervoso le informazioni provenienti dall’azione del proprio corpo e quelle provenienti da un soggetto osservato. Si ipotizza che ciò avvenga dentro un meccanismo di imitazione implicita degli atti motori e tale meccanismo è stato chiamato: simulazione incarnata (Gallese, 2005). Essa comporta una sorta di condivisione automatica di chi osserva con l’oggetto, il movimento o la persona osservata. Da ciò, l’esperienza di immedesimazione e di empatia.
Di fronte a un’opera d’arte, l’empatia estetica può manifestarsi allora in due modi (Freedberg & Gallese, 2008):
1. come relazione tra emozioni imitative del soggetto e contenuto rappresentativo dell’opera, inteso come azioni, intenzioni, emozioni e sensazioni raffigurate;
2. come relazione tra emozioni imitative del soggetto e composizione dell’opera, intesa come traccia visibile dei gesti creativi che l’hanno generata.
In altre parole, chi osserva un oggetto dal punto di vista estetico ne coglie sia gli elementi figurativi, quale che sia la loro approssimazione agli oggetti reali, sia l’esito del suo processo formativo (cioè la testimonianza di particolari movimenti manuali), quale che sia la tecnica impiegata, comprendendo entrambi gli aspetti in una immedesimazione corporea ed emozionale che consente lo sviluppo di un esercizio interpretativo di ordine semantico e concettuale. L’esperienza estetica appare così come la mediatrice non più del rapporto tra un individuo e un oggetto, bensì della relazione tra due individui: l’osservatore e un altro da sé. Nel caso quest’altro sia persona con disabilità intellettiva, l’esperienza estetica rimanderà direttamente alla sua storia, vera o presunta, alla sua quotidianità, irripetibile o stereotipata, al suo atto formativo, concreto, grossolano, o perseverante. E proprio in questa cornice le opere d’arte diversabili trasmetteranno quelle “apparizioni uniche di una lontananza”, quell’aura che sarà il riflesso della loro autenticità (Benjamin, 2011, p. 10), lo spettacolo unico e ravvicinato dell’esperienza di persone inizialmente rappresentate come diverse e distanti, ma che, attraverso le loro produzioni figurative, riescono ad approssimarsi in un sentire comune che le rende note e presenti a tutti gli altri.
Ma è chiaro che tutto questo avverrà solo se l’osservatore sarà alleggerito dalle sue sovrastrutture mentali, libero dai numerosi dispositivi socio-culturali che regolano l’accesso di un discorso, un evento o un oggetto, nel novero dei discorsi, gli eventi o gli oggetti possibili o ammissibili; solo a condizione di mollare tutte le procedure di esclusione che delimitano ciò che può essere da ciò che non può o non deve (Foucault, 1972). E’ noto infatti il ruolo esercitato dai fattori di contesto, storicamente determinati e contingenti a un momento e un luogo, per la definizione dell’opera d’arte: il nome dell’autore, l’esposizione in gallerie prestigiose, la valutazione commerciale dell’opera, i commenti della critica, l’etichettamento in una tendenza, l’interdetto per le proposte non conformi a particolari standard. Un’autentica esperienza estetica per un’arte diversabile avverrà solo nella misura di una deintellettualizzazione provvisoria del soggetto osservante, solo lasciando spazio a una contemplazione libera, a una dimensione sensoriale e corporea dell’esperienza, solo accettando i termini psicofisiologici di una nuova pedagogia dell’arte (Ruggieri, 1997).
Questi dunque i tre criteri estetici: l’opera diversabile sarà opera d’arte quando nasca dall’intenzionalità formativa del suo autore, cioè dalla sua volontà esplicita di dar forma alla materia, quando rispecchi una legge di coerenza che ne definisca il carattere unitario e quando susciti un’esperienza estetica di tipo corporeo ed emozionale in chi la osserva.
Per la sua definizione non sarà necessaria alcuna ulteriore analisi formale, nessun tentativo di incasellamento descrittivo, nessuno studio normativo volto a porre limiti, barriere, criteri di inclusione o esclusione. L’opera d’arte diversabile trascende i confini di genere e si rispecchia nelle parole con cui Kandinskij risolse l’eterno dibattito tra arte realista e arte astratta, poli paradigmatici delle discussioni estetiche di un intero secolo: “Essi aprono due vie, che conducono in definitiva a un’unica meta […]: la materializzazione di un determinato suono interiore” (Kandinskij, 1988, pp. 133 e 140).
Ma c’è un quarto criterio per la definizione dell’opera d’arte diversabile. Esso risponde alle domande: cosa e come fa la persona con disabilità intellettiva quando forma un’opera d’arte? Cosa succede nella prassi di tale evento?

Aspetti procedurali
In riferimento al linguaggio dell’ICF, la disabilità intellettiva è considerata l’esito di una menomazione delle funzioni corporee (mentali) in grado di produrre limitazioni allo svolgimento di attività e restrizioni della partecipazione ai contesti sociali. Ma mentre la menomazione è un dato di fatto poco o per nulla modificabile, l’attività e la partecipazione offrono ampi margini di cambiamento attraverso opportuni interventi di manipolazione ambientale, che, se ben condotti, possono attenuare significativamente l’impatto dei deficit reali. Tali interventi consistono essenzialmente nell’introduzione di facilitatori, che hanno lo scopo di elevare le performance della persona verso i limiti delle sue capacità, ovvero di ottimizzare il funzionamento generale dell’individuo nei suoi contesti di vita. In questo senso, si può affermare che la specificità dei bisogni educativi di persone con disabilità intellettiva non si riferisce tanto a una natura particolare dei bisogni in sè, di fatto uguali a quelli della popolazione generale, ma alle condizioni di garanzia per il loro soddisfacimento, queste sì differenti rispetto a quelle degli altri individui.
Da tali premesse deriva che, all’interno del laboratorio artistico, perché la persona diversabile possa esprimere tutto il suo potenziale, dovrà essere presente un altro individuo al suo fianco, che chiameremo appunto: facilitatore. Questi dovrà essere in grado di attuare tre azioni, proprie di ogni efficace relazione educativa: osservare, mediare, orientare (Marescotti, 2006). Esse operano congiuntamente e simultaneamente.
Osservare significa guardare per conoscere la persona diversabile accogliendola nella sua interezza e complessità, nei punti di forza e di vulnerabilità, nelle preferenze e idiosincrasie, nei tempi e modi di apprendimento, nei rapporti con il mondo e con le altre persone. Nello specifico del laboratorio artistico, vuol dire cogliere la presenza di intenzionalità formativa, dell’autentica volontà di formare una materia, del desiderio estetico di creare una forma fine a sé stessa. Non tutti i partecipanti al laboratorio, per il solo fatto di farne parte, esprimeranno tale particolare iniziativa, pertanto sarà dovere del facilitatore riconoscerne l’occorrenza attraverso i più diversi indicatori comportamentali: esplicite richieste verbali per chi è provvisto di linguaggio, approssimarsi spontaneo al materiale da manipolare per chi non parla, volgere dello sguardo che si fissa su quel materiale per coloro che non possono spostarsi autonomamente, ecc. Inoltre, l’osservazione consentirà al facilitatore di individuare il profilo di abilità e di funzionamento dell’individuo e ciò sarà condizione indispensabile per guidare correttamente la sua seconda azione educativa.
Mediare consiste infatti nel procurare gli strumenti necessari a ottimizzare e finalizzare il rapporto tra la persona in difficoltà e l’ambiente in cui agisce, costruendo linguaggi e significati condivisi e rimuovendo le barriere disseminate tra la sua volontà e le realizzazioni visibili di essa. Nello specifico del laboratorio, significa facilitare la traduzione dell’intenzionalità formativa nell’opera formata, inserirsi nel mezzo di questi due momenti con soluzioni-ponte che consentano l’avanzamento del processo, accompagnare la persona nel suo operare perché possa esplorare liberamente tutte le opzioni formative, strutturare l’ambiente in fasi affinché sia protetta da elementi di disturbo e agisca ordinatamente ritrovando ciò di cui ha bisogno, legittimare quelle azioni insolite o bizzarre che sarebbero consentite a qualsiasi artista ma che il senso comune vieta a ogni soggetto con disabilità. Soprattutto, gran parte della mediazione si declinerà come intervento di insegnamento/apprendimento, rispetto al quale il facilitatore dovrà padroneggiare le tecniche fondamentali di analisi e modificazione del comportamento (Foxx, 1986). Uno scopo generale della mediazione è infatti quello di ampliare il più possibile il repertorio di abilità della persona diversabile e ciò avverrà nella misura in cui il facilitatore sappia cogliere la funzione di ogni specifico comportamento in un determinato ambiente, leggendolo in termini di costi e benefici per l’individuo che lo manifesta; quando sia chiaro che il comportamento è sempre l’esito di un progressivo affinamento di un certo atto che evolve e che può per questo essere modellato passo passo; laddove lo stesso comportamento sia concettualmente e operativamente scomponibile in passaggi più semplici, da insegnare singolarmente e legare poi in una sola sequenza finalizzata; fintanto che ciascun aiuto sia inserirto in una zona di apprendimento potenziale che ne promuova l’interiorizzazione e ne suggerisca le modalità per il suo progressivo dissolvimento.
Infine, orientare. Con ciò si intende informare la persona circa il più ampio numero di alternative possibili e accessibili, perché tra queste possa effettuare una libera scelta. Nello specifico, vuol dire che il facilitatore mostra alla persona le tecniche e i materiali disponibili e la istruisce al loro uso, dapprima in modo convenzionale, poi, secondo le diverse disposizioni e interessi, adattandoli via via in una prospettiva di flessibilità ed eclettismo, fino a quando il soggetto con disabilità abbia individuato tecnica e materiale preferiti. A ciò, il laboratorio sarà impostato come spazio ludico e di sperimentazione: ludico perché siano garantiti gioco e divertimento, migliori cornici per ogni futuro apprendimento; di sperimentazione perché la libera iniziativa renda sempre nuova l’esperienza ed emozionante la sua scoperta.
Ma si capisce così che l’intervento del facilitatore non avviene come qualcosa di esterno, aggiunto all’azione della persona con disabilità intellettiva che viene aiutata solo a partire dai suoi limiti, come se questa trovasse nel facilitatore una protesi alle sue menomazioni. In realtà, l’arte diversabile si configura come esperienza interattiva tra due persone, in cui le azioni rispettive cooperano attivamente e si modificano a vicenda verso la realizzazione di una stessa opera formata. In questo modo, il facilitatore eserciterà il suo ruolo dentro una dialettica tra autonomia e dipendenza, nella quale da una parte baderà a ridurre al minimo la sua azione condizionante, mantenendosi al di qua della libera determinazione della persona aiutata e sfiorando senza mai raggiungerle le lusinghe di potere nascoste sempre dietro ogni autentica vocazione all’aiuto; dall’altra non potrà non fornire il suo contributo personale al processo creativo, proponendo egli stesso spunti, o sviluppando quelli dell’altro, in una sinergia che consentirà la creazione di un solo oggetto estetico a partire da due distinte esperienze della realtà.
Per questo, l’arte diversabile si collocherà dentro i confini di una estetica relazionale (Bourriaud, 2010), nella quale l’elemento di intersoggettività costituisce l’essenza stessa della pratica artistica, a sua volta esperienza di un modello di partecipazione sociale. In essa la forma sarà il prodotto estetico di un rapporto tra due individui, posti su piani diversi di funzionamento, ma concorrenti alla realizzazione di un unico scopo altrimenti irrealizzabile. E sarà a partire dal lavoro della coppia che l’opera d’arte uscirà dai suoi confini estetici per ritrovarsi nella cornice di un discorso etico, affermando la possibilità e il valore di una relazione umana aperta, libera e partecipativa, dove ciascuno trova la piena legittimazione alla propria esistenza, e che diventa capace di comunicare al mondo tutto il suo potenziale di bellezza.

L’arte diversabile è già una realtà. Decine di laboratori artistici operano da diversi anni con lo scopo di favorire l’espressione di persone con disabilità intellettiva. Ma essi funzionano per lo più come luoghi di tipo occupazionale, al limite come spazi terapeutici: i loro confini sono quelli dell’istituzione nella quale operano o in cui sono ospitati. E’ ora tempo di dare loro piena dignità estetica, giacché solo attraverso di essa sarà possibile realizzare un vero progetto di inclusione nell’intera società.
L’arte diversabile segna dunque l’affermazione di un linguaggio nuovo, frutto maturo del rinnovamento dirompente realizzato dalle correnti artistiche del ‘900. La messa in discussione dei più raffinati livelli di elaborazione intellettuale come soli depositari del messaggio artistico apre di diritto la strada a coloro che di tali elaborazioni possono fare a meno, a quanti non partecipano al dibattito da posizioni ideologiche o con scelte strategiche, a chi non elabora l’eredità del passato con i filtri concettuali del presente, ma si limita a vivere con sufficiente consapevolezza l’idea che un mondo rappresentato con intenzionalità e con le risorse di un intelletto debole possa ugualmente offrire alla civiltà un contributo di forme, di bellezza e di condivisione.

Alessandro Riatsch
psicologo e specializzando in Psicoterapia Comportamentale e Cognitivista presso l’Istituto Walden di Roma. Nella stessa città ha conseguito il Diploma di Musicoterapia presso la Scuola Glass Harmonica. Attualmente lavora a Roma nell’Ambulatorio per l’Autismo e i Disturbi Pervasivi dello Sviluppo in Età Evolutiva del Consorzio Unisan.

Bibliografia
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