Oltre la psiche. Riflessioni sull’arte nella cura

UN MOSAICO di enorme complessitàStefano Mazzacurati

Il tema della relazione d’aiuto fra l’arte e la terapia, come in un famoso racconto di Borges, è un giardino dai sentieri che si biforcano. Infinite combinazioni, interpretazioni, itinerari. C’è una cura dell’arte, che rimanda alla gestione delle cose artistiche; una cura nell’arte, in riferimento ai temi della stessa terapia trattata in pittura, scultura, letteratura, e così via. Di questo, non essendo addetto ai lavori dell’arte, non mi occuperò. Come non mi occuperò dell’arte intesa come l’impiego di pittura, scultura, musica, letteratura nei processi terapeutici; non sono un operatore di arte-terapia.
Cercherò invece di approfondire il concetto di arte all’interno del concetto di cura, e di comunicare non certezze o tesi, ma dubbi ed emozioni, offrendo il contributo di chi da anni si muove tra psicoterapia e letteratura.
Propongo quindi una riflessione, riassunta in un dubbio: quanto e come oggi adoperiamo la nostra arte nel mondo della cura?
Dopo tutti questi anni – per me oggi sono trentacinque – le storie dei miei Pazienti, ma,
sopra tutto, i loro volti, sfilano davanti a me come i ritratti di una galleria personale.
Essi mi hanno accompagnato e mi accompagneranno a ricordarmi, nel bene e nel male, che nel rapporto con loro ho dato un po’ di me. E un po’ di me, inevitabilmente, si è modificato. Perché nessuno può incontrare qualcuno senza cambiare un po’. Sono loro i miei docenti, le mie linee guida. Così, nel tempo si è costruita..un’arte. Meglio, un artigianato.
A me preme di aggiungere, tra le infinite cose che non dico, che da sempre considero la
Persona del Paziente come un romanzo. Compito del terapeuta non è dirigere, interpretare, spiegare, chiarire. Ma ascoltare, comprendere, fornire dubbi, non certezze, aiutare l’altro a impugnare da solo la penna, fornirgli la carta e l’inchiostro, per scriversi. Per provare a vivere un po’ meglio. Ognuno è letteratura.

Arte

Arte è una attività umana che si fonda sulla abilità individuale, sullo studio, sulla esperienza e su un complesso di regole specifiche ma anche sulla tecnica necessaria per esercitare una specifica attività. Per cui non si può dire che è bello ciò che piace.
Si tratta quindi di una capacità di agire e di produrre. Come la poesia, che, letteralmente, significa fare realtà.
Se ne interroghiamo l’etimologia, sappiamo che la parola deriva dal latino ars, artis, dalla radice ARE, che rimanda al concetto di articolare, ordinare; collegata al greco artìs, che significa unione. Dunque qualcosa da mettere insieme in modo ordinato.
Ma arte rimanda anche al concetto di arma, armamento, e di herma, equipaggiamento. Riferimento al pascolo, nòmos, per cui c’è un pastore, o un cane, che raduna gli armenti e li tiene insieme, li governa. Armento è infatti anche una sorta di equipaggiamento, economico, oltre che anatomico e militare. Ma nel complesso ci si riferisce allo strumentario che permette di tenere sotto controllo una attività. Essere armato è quindi anche un essere equipaggiato. In latino paratus, cioè pronto, preparato, a sostenere un attacco, o, semplicemente, un imprevisto. Chi o cosa non è previsto è preliminarmente una minaccia. Il nemico è dapprima uno straniero (hostis). Si coglie qui il senso di difesa nei confronti di un elemento che proviene dall’inconosciuto (in conscio) e, per queste proprietà oscure, è caricato del senso del pericolo. Chi si arma di una difesa, chi cura ad arte la barriera che lo separa dall’inconosciuto, risponde all’esigenza primordiale di sopravvivenza per cui, entro certi limiti, l’ansia è fisiologica e necessaria. Ansia intesa qui come stato d’animo che avverte un pericolo imminente e ignoto, di fronte a cui ci si sente impotenti; sentimento che si esprime con varie manifestazioni somatiche, neurovegetative e più complesse.
Quando gli abitanti delle grotte di Altamira, come molti altri primitivi, dipinsero sulle pareti bufali, antilopi, o altri animali da cacciare, univano al gesto magico propiziatorio anche il senso della forza che, tramite la rappresentazione artistica, poteva essere evocata e raccolta da quella arcaica forma di rito. Quel gesto, quel segno, quella pittura, esprimevano attraverso la loro arte già un concetto di cura, di tutela. Gettavano le fondamenta di un senso terapeutico dell’arte.
L’arte quindi dispone un suo ordine per difendersi dall’ignoto. Ma è, così, già una forma di cura.
Lo fa chiamando a raccolta e riunendo elementi della realtà che destruttura per ristrutturarli, realizzando una nuova partitura. Questa operazione è comune a molti linguaggi: poesia, follia, mito, leggenda, fiaba, infanzia, demenza e così via.
Forniamo un esempio, scegliendo tra le arti la poesia, che è forse la manifestazione più arcaica all’origine di quei processi operativi che possiamo dire cura dell’anima, psichiatria.
Ci conforta il parere autorevole di Eugenio Borgna, che afferma che la psichiatria non può fare a meno della poesia.
E’noto che la parola poesia rimanda al fare realtà. Contiene quindi un nucleo materico, che allude alla ricerca e alla produzione di senso di cui si è detto più sopra, e che appare al massimo grado in quell’operazione euristica che è lo scavo poetico.
Il riferimento è l’antica origine della parola entusiasmo, che rimanda al greco, componendo èn (dentro), teòs (dio), àsthma (respiro): quindi, il soffio di un dio dentro di me. O, in altri termini, l’ispirazione.
L’ispirazione poetica appare l’ancestrale impulso alla ricerca di sé, attraverso la composizione di parole in quella particolare forma, la forma/formula poetica, che allude a quella che Freud chiamava produzione di senso, in riferimento al processo euristico insito nella cura.
La comunicazione poetica avviene mediante segni specifici e atti rituali, che muovono da un racconto antico (mito) e vengono, per lunghi tempi antichissimi, amministrate da svariate figure di confine tra poeta, medico e sacerdote.
Prendendo la letteratura come esempio di arte, la sua produzione di senso può essere usata in clinica, in psicoterapia e nella ricerca. Indicherò quattro possibili itinerari di ricerca.
Nell rapporto tra psichiatria e letteratura, c’è:

1) una Psichiatria della Letteratura, quando si tratta con occhio tecnico psichiatrico un autore o un testo letterario, per cui Holderlin, Dino Campana, Alda Merini, ecc. sono analizzati come scrittori folli. Nei loro testi si può individuare l’elemento patologico.
2) una Letteratura della Psichiatria, quando si tratta con occhio tecnico letterario un autore o un testo psichiatrico. Per esempio, Freud è uno psichiatra che, per come scrive, ha piena dignità di scrittore. Nei suoi testi si può individuare l’elemento artistico letterario.
3) una Psichiatria nella Letteratura, quando in ambito letterario, in un testo, viene trattato un tema psichiatrico. Per esempio, Tobino, in molti romanzi, descrive le psicosi, la depressione, ecc. o Tarchetti in Fosca. Verga, in Storia di una capinera, ecc.
4) una Letteratura nella Psichiatria quando in ambito psichiatrico (all’interno di materiale clinico) emerge una produzione letteraria. Es. un paziente psicotico compone una poesia di dignità letteraria. Un paziente depresso scrive un racconto diario della sua vita in buono stile letterario.

Ritengo però che un Autore sia autentico non in quanto malato, ma non ostante la malattia. Non tutti, ma solo pochissimi, scritti di malati mentali sono letteratura. E gli scrittori autentici, più o meno grandi, sofferenti per disturbi psichiatrici, da Holderlin a Dino Campana, da Pascoli a Hemingway, hanno prodotto i loro scritti nei momenti più liberi dai loro sintomi. Pure se, per molti di essi, la specificità del disturbo ha probabilmente acuito e specificato l’intensità e l’efficacia dell’opera. Ma non solo questi Autori hanno scritto con quello stile e di quei temi, con la medesima efficacia e intensità.
Karl Jaspers ricorda che la perla nasce dal difetto della conchiglia: come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così, di fronte alla forza vitale di un’opera, non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita.
Ma si presentano situazioni differenti. Per esempio, come Jaspers dice di Strinberg: Emerge in modo inconfutabile una coincidenza scientificamente dimostrata tra il grado più alto dello sviluppo creativo e il momento più eclatante dell’esplosione della turba psicologica.
Al contrario in Antonine Artaud il periodo del lungo itinerario manicomiale coincide con l’affievolimento dell’ispirazione.
Diversamente ancora, in Holderlin un periodo di turbe e produzioni impetuose lascia il posto a una patologia e a produzioni desertiche.
Per esempio, l’Art Brut non è monopolio della malattia mentale, anche se una cospicua parte di tali opere proviene dalla psicopatologia, manicomiale e territoriale, come poi si è visto, sfatando il mito di arte esclusiva dei manicomi.

Nell’Autore Brut non vi è emergenza ma urgenza. Perché sussista un’emergenza, bisogna che si faccia avanti, in modo progressivamente consapevole, un problema, un segno, un sintomo. Urgenza, invece, dal longobardo urg, sottolinea la pressione, l’impeto bellicoso, magmatico.
Emerge un sottomarino; erompe, con urgenza, un vulcano. In psicoterapia emerge una consapevolezza, che culmina in un rapido in-sight; ma nelle espressioni patologiche più profonde, spesso psicotiche, si assiste all’eruzione dell’inconscio, che abbatte barriere e convenzioni. Come l’Autore Brut. O l’Autore Brut come uno psicotico, ma non necessariamente tale.
Se mai, si può chiamare in causa il concetto di origine psicoanalitica di “acting out“, poi adottato dalla clinica psichiatrica col termine di “agito“, a indicare un momento o episodio di uscita improvvisa da regole e schemi prefigurati.
In tutti i casi emerge una “necessità” che, nell’origine stessa della parola, si compone della negazione (nec) e cessit (cedere), come a dire la negazione della possibilità di muoversi, o di essere rimosso; in un certo senso, poiché l’idea della necessità nasce dall’immobilità, si può azzardare, nell’atto brut, una negazione del rimosso, che torna tutto dentro, in profondità in cui si trattiene, dalle quali si esprime poi per agiti, erompendo a suo piacimento sulla tela o sulla pagina scritta e disegnata.
S’intravede così il collegamento, anche se non identificazione, tra L’Art brut e l’art terapia. Condividiamo che, piuttosto, chi produce art brut, faccia autoterapia, poi che è refrattario, in quanto artista già completo, a qualsiasi manipolazione esterna del suo creare.
Anche quando dipingono vicini, in un atelier psichiatrico, gli autori brut, al massimo sono contigui, ma non continui. Perché non può esservi continuità là dove c’è frattura col mondo e un modo autista di rapportarsi a esso.
Questi autori di se stessi lo sono solo per se stessi. Solitari, schivi, o improvvisamente desiderosi di contatto fugace, sono come lupi, selvaggi, sensibili e voraci. In essi, per tanto, ci si può solo imbattere, come in una radura con un lupo. In essi l’elemento energetico prorompe e lancia un antico richiamo. Ecco perché giustamente.
Per incontrare questi autori bisogna andare nel loro territorio, sfondo esistenziale e poi culturale che determina la visione del mondo di quella persona. Non è quello che si fa, o si dovrebbe fare, di fronte a un delirio? Prima o piuttosto che interpretarlo, deporre la logica, incontrarlo sul terreno della sua alterata sintassi?
Con i loro segni, con le loro parole sospese tra i graffiti e lo sfondo, questi autori cosa ci vogliono dire? E i nostri pazienti, quelle persone che sfilano con i loro ritratti nella galleria delle nostre memorie, non sono forse tutti autori? Del loro romanzo, del loro affresco del mondo?
Entrare nel tempo, e nello spazio vissuto, delle loro opere, li accomuna con chi non è sofferente, a chi è solo autore. Ci affascina la loro fragilità, la sensibilità, il senso di vuoto, che allude a una perdita, ma subito, con l’urgenza del segno, cerca nuovi significati.
Husserl, è noto, afferma che le cose nascondono un’intenzione, e attendono un significato. L’intenzione degli Autori brut è tutta nel segno, nel colore, improvvisi e bambini, stupefatti come il Principe Myskin, L’Idiota di Dostoewsky, intelligente e puro, di fronte al mondo.
Il personaggio di Myskin, filosofo e infantile, conferma l’assunto aristotelico che vuole la filosofia nata dal dolore e dalla meraviglia.

Prospettiva storica

Nella prospettiva di rapportarla alla cura, è utile analizzare l’arte anche da un punto di vista storico. Incontriamo, allora, a un certo punto nella cultura occidentale, una divisione antica tra arti meccaniche e arti liberali.
Arti meccaniche, manuali, esprimono un sapere operativo: di qui i mestieri, le corporazioni. Si tende alla fabbricazione di oggetti utili. Da sempre le attività dello schiavo.
Arti liberali, esprimono un sapere speculativo. Si tratta di attività gentili, che si conformano al modo di vivere dell’uomo libero. Sono attività che si esplicano con l’intelletto.
Nel Medio Evo si impone poi la divisione tra Arti del Trivio: grammatica, dialettica, retorica, e Arti del Quadrivio: aritmetica, geometria, astronomia, musica.
Sempre nel Medio Evo esiste fin dal 1200 una Facoltà delle arti, che è parte dell’ordinamento universitario medioevale e rinascimentale.
In quanto attività umana, l’arte sottolinea l’aspetto umanistico, e viene in qualche modo contrapposta all’attività di Dio.
Quindi attività dell’uomo, che rimanda al concetto di mestiere (conciatore, tintore, fornaio, per cui si parla di arte bianca, in riferimento alla farina).
Queste brevi note di richiamo storico ci permettono di mettere in relazione l’avere arte con l’avere parte. Né arte né parte è, per contrasto, la caratteristica deficitaria di colui che, non possedendo un know how, non può che essere prima o poi emarginato, e vivere alla deriva, con comportamenti che la società di riferimento dice alterati, quando non alienati. Niente arte, niente cura, paiono dirci questi elementi. Possedere un‘arte permette l’ingresso in un contesto microsociale, si viene riconosciuti, accettati. Non si è più stranieri. E già abbiamo visto come l’essere-straniero prelude all’essere-nemico. E, quindi, probabilmente osteggiato, scartato, rifiutato, recluso. E’ il noto destino del folle, come del lebbroso, dell’appestato, del sifilitico, e ora di tante altre categorie, nel corso della storia. Questi personaggi, in vario modo, possedevano un aspetto diverso, straniante, e diventavano in qualche modo nemici, da relegare in un mondo straniero, estraneo, perché esterno, come il lebbrosario, il manicomio e così via.

Arte della psichiatria e opera

Jean Paul Sartre scrive: Corriamo verso di noi. E per questo siamo l’Essere che non può mai raggiungersi.
L’atelier dell’anima, di questo Essere che non può mai raggiungersi, resta vivo se viene messo continuamente in crisi. Se si è disposti a cambiare il quadro e la cornice della propria esistenza intesa come opera.
Ma, in psichiatria, chi è autore dell’opera? Non certo gli operatori della psichiatria. E’ infatti quasi universalmente condiviso che occorre riportare sempre in primo piano la Persona, intesa come autore del proprio progetto. Collocarla nella storia.
Sulla base delle nostre locali esperienze, simili a quelle che ormai si consolidano in molte altre parti del territorio italiano, riteniamo che il lavoro preventivo e riabilitativo, come quello degli ateliers di arte terapia, che è stato spesso nelle retrovie dei Servizi, sia invece da collocare in primo piano.
Come psichiatri dovremmo sentirci più contenti quando una persona ci sorride perché, avendo imparato a contare i soldi e a fare la spesa o a rappresentarsi in una tela o in teatro, sta meglio fra gli altri, perché crede di avere capito cosa gli succede dentro. Vuol dire che ha funzionato l’arte della cura.

Cura

Possiamo definire la cura come uno stato d’animo e un atteggiamento che esprime un interesse premuroso e sollecito verso un oggetto coinvolgendo sia la sfera psichica che il comportamento.
Anche in questo caso, l’indagine etimologica aiuta.
Cura è dal latino cura, anticamente coisa, collegato al greco titiemai, sono inquieto, abbattuto.
La cura dunque parte dal sentimento di inquietudine, che è legato a due concetti.
Da un lato la Sicurezza, che è sé curare (lat. securus). Chi è sicuro è sine cura, senza cura, senza cruccio, senza preoccupazioni, senza ansia.
Da un altro lato la Curiosità (lat. curiositas, ampliamento di curius, che si prende cura)
Chi è curioso si prende cura anche delle cose che non lo riguardano e si addentra in un elemento ignoto, straniero, dove la condizione della scoperta è l’abbandonarsi al pericolo, sciogliendo il vincolo della sicurezza.
Quindi, chi è curioso, accetta di non godere più del beneficio della risolutezza, dove chi è risoluto è certo, sa dove andare. Ma, se sa dove andare, in qualche modo conosce già il territorio di destinazione e si priva della sorpresa. Chi è curioso, al contrario, è irrisolto, gravita nella dimensione dell’in-certo, non sa dove andare. Ma, proprio per questo, si priva della sicurezza, vive nel territorio dell’in-quiete. E, armato e inquieto, si muove come i cavalieri erranti che, nel loro errare in quanto vagare, si espongono all’errare in quanto sbagliare, ferirsi, morire. Come i cavalieri alla ricerca del Graal, privi di un itinerario certo, e per questo vaganti, cioè incamminati nel vago.
La cura quindi è parola concetto che richiama all’avventura e all’incertezza. All’abbandono all’ignoto, al vivere in quanto essere gettato nel mondo della fenomenologia esistenziale.
Senza cura non c’è vita. Senza vita, non c’è cura.
Gli studi sulle cure parentali lo dimostrano da sempre. Non possiamo qui sviluppare l’argomento, per cui rimandiamo alla ricchissima letteratura in merito.

Cura e premura

Si è detto che cura esprime un interessamento premuroso e sollecito verso l’oggetto investito di quel sentimento. L’oggetto amato freudiano, ma, in genere, ogni oggetto di investimento libidico, è oggetto di cura. Sentimento complesso che racchiude intenzioni di allarme, difesa, custodia.
Ingrediente della cura è la premura, complesso di atteggiamenti e sentimenti di sollecitudine, mossa da interesse e, più oltre, da rispetto, amicizia, amore. Situazioni che implicano, oltre all’attenzione e alla gentilezza, spesso non coltivata da molti operatori e strutture, anche la fretta. Sentimenti e atteggiamenti che si realizzano nello “stare in guardia“ proprio delle situazioni di allarme e, quindi, rimandano direttamente al concetto freudiano di ansia-segnale e ansia-allarme.
Cura, quindi, è espressione e, contemporaneamente, contenitore di ansia e di fretta. Per cui dalla premura propria della cura si scivola facilmente nella fretta propria dell’ansia.
Oggi si ha spesso l’impressione che, da parte del sistema, appaia certo naturale fare attendere il paziente in lunghe liste di attesa, ma non sempre ci si pone il problema di attendere i tempi del paziente. O, per offrire un altro esempio, negli ospedali pare che il sistema di cura abbia da sempre fretta di imbandire la cena, somministrandola verso le diciotto, anche in piena estate, lasciando il paziente solo per lunghe ore. Alterando il ritmo sonno veglia, generando effetti iatrogeni di ansia, noia, insonnia. Inducendo il rischio dell’abitudine iatrogena a ipnoinducenti e ansiolitici. Tra l’interesse del personale e dell’organizzazione da una parte, e quello dell’utente dall’altra, è nei fatti su chi cada la preferenza. A dispetto delle varie coloratissime e patinate carte dei servizi. Dove la società dell’apparenza rimanda al paziente e ai suoi famigliari l’immagine di una sanità fredda, still life che spesso, per essere umanizzata e resa funzionante, ha bisogno di gesti di singoli, politically uncorrect, che saltino le regole in nome del buon senso.
Quindi, cura come contenitore di ansia e, qualche volta, di ipocrisia.
Da una sterminata letteratura sappiamo che l’ansia non è né buona né cattiva. Entro certi limiti, essa è fisiologica, un buon compagno di strada (Borgna) che ci avverte della presenza dell’ignoto e del possibile ostacolo, quando non del nemico. Oltre quei limiti, mai segnati da un netto confine, l’ansia si fa progressivamente patologica. E, se all’inizio della curva che la mette in relazione col rendimento (Yarkes-Dodson e altri), l’ansia è strumento prezioso per aumentare proporzionalmente le prestazioni, oltre un certo limite non serve più, e, se aumenta, diventa elemento patogeno di precipitazione del rendimento.
Un eccesso di ansia di cura può essere in qualche modo violento. Tra i numerosissimi esempi:
i rischi dell’accanimento diagnostico e terapeutico; la violenza della costrizione a vivere, esercitata su esseri vegetanti attaccati a macchinari che Ippocrate non poteva prevedere quando nel giuramento parlava di difesa della vita; o la premura troppo sollecita che forse, in qualche regione ad alta vocazione sociale, in nome di quella vocazione e del rigore di certe procedure per Tribunali dei minori, fa innalzare il picco degli affidi, per bambini che altrove avrebbero un diverso destino.
C’è da interrogarsi, in questi e altri casi, dove sia la cura; se la legge, la burocrazia, l’eccesso di premura rischiano di soffocare l’esistenza in un abbraccio mortale, così detto a fin di bene. Certo, non si brucia più il peccatore per salvargli l’anima, come negli amorevoli roghi della Riforma e della Controriforma, ma a volte lo spirito è rimasto quello. Certo i DRG, i DSM, non sono il Malleus maleficarum, ma chiediamoci se dai loro accuratissimi algoritmi sia più facile sortisca un’arte, nel senso di un buon artigianato medico che lascia libere le mani di chi compie questa operazione sacra, o, piuttosto, in nome della paura di denunce e querele e della stampa, non emerga maggiormente una omologazione dei gesti, a produrre una anodina medicina difensiva in cui spesso non si tenta, non si osa. Non si getta il cuore oltre l’ostacolo. Ma così, per avvicinarsi in questo modo al paziente, paradossalmente si è coltivata l’arte di allontanarsi dalla sua persona, preferendogli l’utente e il cliente. Col risultato che spesso la persona del paziente si sente sola, abbandonata, non presa sul serio, inascoltata. Trattata, sì, ma non con amore fraterno e disinteressato.
C’è da chiedersi se la legge, la burocrazia, la morale comune, le procedure, nel mondo dell’ ipad e del touch screen, siano sempre dalla parte della autentica cura.
Cura è quindi arte del riguardo, e dell’attenzione. Cioè una tensione verso un oggetto conosciuto che vegliamo dall’alto della nostra esperienza, sor-vegliamo.
Cura è anche il complesso delle arti mediche, mezzi terapeutici e prescrizioni che tendono a guarire una malattia. Ma se guarire (dal franco longobardo warjan, tenere lontano) si limita e operare l’allontanamento dal male, nell’arte psichiatrica e psicoterapica, molte cose non sono curabili, non se ne può guarire, perché, mentre una cisti o un’infezione sono qualcosa che si sovrappone all’essere, quindi uno ha una cisti, ha un’infezione; al contrario, per es. una depressione non si sovrappone all’essere facendolo soffrire, perché è invece l’essere stesso che soffre. Dunque uno non ha una depressione, ma è depresso. Quindi la depressione, come ogni altra fenomenologia di sofferenza psichica, attiene alla dimensione ontologica, non si può guarirne, nel senso di tenerla lontana, al contrario la si può trascendere avvicinandosi sempre più alla sua radice. E anche l’azione farmacologica, la più efficace, non serve se alla fine non viene restituito all’essere sofferente il senso dell’appartenenza a sé. Operazione tipica della psicoterapia.
Ne discende che la cura è l’insieme dei mezzi terapeutici e delle azioni sanitarie che hanno il fine di guarire nel senso più lato dell’espressione. In questa area vasta certo viene compresa l’azione medica in senso stretto, ma anche la cura delle anime, in senso laico, che a sua volta comprende la sterminata koinè delle discipline psicologiche, psicoterapeutiche e psichiatriche cliniche.
Nella cura sono presenti varie componenti.
Cura dedizione: attiene all’essere-per-altri, al senso del dono di sé senza altro chiedere. Questo senso è affine alla componente dell’amore definita agapica. In questo senso la cura è una forma d’amore. Non è raro reperirla nel mondo del volontariato, nelle espressioni di aiuto estremo in condizioni di difficoltà laddove l’umanità conosce le più alte frontiere della sofferenza.
Non è utile né corretto limitare il mondo della cura all’azione verso chi soffre umanamente. Cura è ogni forma di dedizione verso esseri o ambienti che portano un bisogno. Si apre così al vocabolo un senso più ampio, se si pensa alla cura dei genitori, dei famigliari, dei bimbi, degli alunni, del pubblico, del cibo, della casa, dell’ufficio, delle piante, dello scritto, della partitura musicale, della tela del pittore, e così via. In ognuno di questi casi il mondo della cura implica un ruolo attivo di chi la presta che ha un comune denominatore, l’amore verso l’oggetto curato.
Cura è quindi un concetto umano, che contiene quello medico. Arte è un concetto umano, che contiene quello artistico nel senso del pittore ecc.

Il diritto al sorriso

E questo rimanda al senso più pieno di concetto di salute secondo l’OMS, per cui salute è avere un buon lavoro, avere una abitazione confortevole, panni dignitosi da vestire, cibo sufficiente e vario da mangiare. Eccetera. Sotto questo aspetto per esempio, per contrastare conflitti emotivi, ansie, reazioni depressive in una coppia giovane magari con bambini, appare molto più efficace di un farmaco che si provveda a garantire rimedi contro la disoccupazione, contro le nuove povertà, garantire asili e scuole dignitosi, concedere prestiti bancari a interessi molto bassi, allestire convenzioni e facilitazioni, e tante altre cose che, come nella famiglia del Racconto di Natale di Dickens, facciano tornare il sorriso. I giovani, ma, naturalmente anche i vecchi e tutti gli altri, hanno il diritto al sorriso.
Ma non mi risulta che tuttora ci sia una procedura per il prodotto sorriso. O istruzioni operative che lavorino sull’arte della gentilezza.

Cura e terapia

Ne discende che cura non si identifica con terapia.
In senso temporale, la cura precede la terapia, intesa questa come momento specifico identificato da un precedente atteggiamento di cura.
In senso spaziale, la cura contiene la terapia, è cioè un terreno di azione al cui interno si può individuare la più tecnica azione della specifica terapia. Cura contiene terapia, ma non viceversa.
Per cui non è detto che ogni volta che l’arte entra nella cura sia successivamente terapia, cioè per esempio, arte-terapia. Spesso è scarabocchio. Né che ogni cosa che giova a qualcuno, la si debba definire terapia, anche se l’azione appartiene al più vasto mondo della cura.
Penso che si starebbe meglio se ci si curasse più delle persone e si applicassero meno terapie.
In altri termini, che senso ha che il Servizio sanitario nazionale appronti programmi psicologici per il vecchio, se poi lo stesso Stato, in forma di croupier, gli inocula il craving per il bingo, il lotto e svariate forme di gratta e vinci che assottigliano la pensione che lo stato gli ha dato con l’altra mano? Non è dissimile lo spacciatore che regala la prima dose.

Terapia

Cosa è terapia? Letteralmente, l’insieme dei provvedimenti e dei trattamenti che si intraprendono per prevenire e contrastare una malattia.
Oggi, tuttavia, per motivi spesso di confusione semantica e non più raramente per interessi economici, viene definita terapia una numerosa serie di azioni che terapia non sono: così se un certo massaggio, un certo profumo, un certo tè, certi fiori, una certa danza, ecc. fanno bene, automaticamente li si definisce terapia. Digito terapia, aromato terapia, cibo terapia, danza terapia, eccetera. Il che implica, naturalmente, l’assurgere al ruolo di terapeuta da parte di chiunque faccia quel particolare massaggio, prepari quel tè, somministri quel profumo, quei fiori, ecc. Ma vogliamo chiamare le cose col loro nome? L’elenco degli esempi è così lungo che la sua stessa lunghezza dovrebbe muovere a sospetto. Riteniamo che, in questa sede, sia sufficiente l’incompleta allusione a questo triste elenco, che per motivi etici dovrebbe muovere al recupero del rispetto della parola terapia. Essa, come è noto, deriva dal greco: significa essere al servizio degli altri. Non di sé, o dei propri più o meno inconfessati interessi.

Trattamento

Lo stesso grado di ambiguità appartiene al concetto di trattamento, che deriva dal latino tractare, intensivo di trahere, tirare. Come se il trattamento non procedesse verso l’altro, nel senso dell’essere-per-altri; bensì si attirasse l’altro verso l’area, il cerchio magico, di azioni consolidate. Una specie di trattamento-Circe, magari ben pubblicizzato e disegnato da bei portali su internet. Tutto bene, certo, ma col dubbio che spesso non sia il trattamento in funzione del paziente, bensì il paziente funzione del trattamento. In cui l’arte della cura, privilegiando il trattamento in nome di consolidate linee guida, e di gesti fondati sulle evidenze, lasciasse sempre meno spazio all’arte, o meglio all’artigianato, in cui ogni buona medicina da millenni si identifica, quando pone al centro la persona.

Rapporto tra arte e cura

Dopo queste rapidissime esplorazioni dei fondali dell’arte e della cura, proviamo a mettere in relazione i due concetti, non nelle loro varie articolazioni, ma solamente cercando di individuare il senso di arte nel mondo della cura.
Si tratta di un rapporto mutualistico, biunivoco.
Da un lato l’arte, per esistere, ha bisogno della cura (essere nella cura) es. prepararsi i colori, come facevano i pittori nelle botteghe del rinascimento; scegliere personalmente il marmo, come Michelangelo che si recava a Carrara a fare tagliare blocchi di marmo dalle Apuane.
Da un altro lato, la cura, per esistere, ha bisogno dell’arte (essere nell’arte) es. curare l’asepsi della camera operatoria, curare il setting della psicoterapia.
Tutto questo, se fatto distrattamente o di malavoglia, diciamo pure, senza amore, è bassa qualità. E viceversa.
E’ nota la maggiore efficacia delle cure parentali calde rispetto alle fredde ricompense. Vedi il famoso esperimento di Harlow e Zimmermann sui cuccioli di macaco (1958) che stavano meglio se vicino a una pur povera mamma di pezza, distributrice di molte noccioline, che vicino a una mamma di ferro, dispensatrice di molte noccioline.
Nel mondo occidentale e, quindi anche nel nostro panorama sanitario, con situazioni qualitativamente molto diverse, è da anni in atto un processo di meta pensiero, spesso legato a necessari fini di documentazione e di accreditamento. Una riflessione cioè su ciò che si sta facendo, al fine di descriverlo, censirlo, misurarlo, confrontarlo coi presupposti. Per cui sono nati notissimi slogan, tra cui, dire quello che si fa, fare quello che si dice, e dimostrare di averlo fatto. Chi può negare questa esigenza? Le ASL, le Facoltà di Medicina e di Infermieristica, nei loro corsi di laurea lunghi e brevi, sono piene di questi slogan più che di corridoi.
Però mi chiedo se l’avere avuto tanta arte e altrettanta cura nel disporre dati, informazioni, siglare procedure, istruzioni operative e via discorrendo, sul piano psicologico e sociale abbia sempre corrisposto all’arte di stare accanto (ad sistere) al paziente. Del pari mi chiedo se avere fatto tutte quelle cose ad arte, prendendo molto tempo, riunioni, workshops, tavole rotonde, allestendo schemi, protocolli, procedure, ecc. abbia sempre corrisposto alla cura del Paziente, almeno parimenti al curarsi di fare bella figura in Regione.
A volte, come operatore e primario, ho avuto la sensazione che tutto quel mondo perfetto, o tendente al perficere dell’informazione completa, data con accuratezza ed appropriatezza, tesa a una mission e sospinta da una vision, in funzione di un governo clinico, implementate da un empowerment, avesse come fine sé stessa, l’abbandono a un edonistico autocompiacimento del sistema servizi.
“Peccato“ che ci fosse… il paziente. Perché, avevo spesso l’impressione, che, salvo quell’imprevedibile, scorretto, importuno, politically uncorrect, del paziente, tutto, altrimenti, sarebbe andato alla perfezione. Come quel cielo di cui parla Kant, quando dice che se tutto fosse prevedibile, al posto della volta celeste avremmo il ticchettio di una cassa di orologio. Sollevando gli occhi, saremmo al cospetto di un terribile ingranaggio. Ma per fortuna l’uomo vivente è imperfetto, nulla può essere preveduto completamente, e, sanamente, la vita sfugge a chi la vuole controllare.
Ci soccorre Eraclito: per quanto tu cammini, non potrai mai raggiungere i confini dell’anima. Diciamolo quindi a quelli che fanno analisi interminabili. Ma anche a quelle istituzioni che perseguono l’ “ottimo“, spesso nemico del bene.
L’arte della cura, che pure enfatizza il vocabolo persona, presto l’abbandona; ieri in nome di un paziente che richiama la misericordia, oggi in nome di un utente che rimanda alla prestazione. Ma la misericordia ieri e la prestazione oggi, nunzi di politiche sanitarie rispettivamente religiose ieri e laiciste oggi, hanno volentieri lasciato al suo destino l’essere persona di quel paziente, di quell’utente. Persona che, per essere rispettata, va rispettata nello stile di vita, nei gusti, nelle tendenze sessuali, nell’atteggiamento verso la morte e la sua gestione, e così via.

Ingredienti della relazione, come arte nella cura.

Ci permettiamo di accennare a un succinto elenco di ingredienti della cura, nel senso dell’atteggiamento che, per esperienza personale, paiono più efficaci, nell’arte dell’incontro terapeutico.
Nella relazione terapeutica, non trascorrono solo le parole. Ma anche le pause, i silenzi, i gesti, piccoli commenti di fondo, le espressioni del volto. Lo sguardo. L’amministrazione del tempo.
Accenniamo solo al titolo di questi grandi capitoli per alludere, a chi certo ne conosce da sempre l’importanza, a un insieme di atteggiamenti che costituiscono il setting

Gentilezza.
La gentilezza, che non è un fatto tecnico, è sempre un necessario contenitore e componente interno del linguaggio della cura. Predispone alla confidenza, comunica disponibilità.

Rispetto.
Il rispetto è guardare all’indietro. Sentimento che porta al riconoscimento dell’altro, della sua identità, dei suoi diritti, del suo decoro (mangiare, vestirsi, abitare, ecc.) e ad astenersi da qualunque forma di offesa, implicita in commenti e consigli sbrigativi, e controproducenti atteggiamenti direttivi in nome di un preteso sapere.

Riguardo.
Il riguardo è guardare ancora, verificare con attenzione e scrupolo, con diligenza e precauzione. Si cerca così di non recare noia o fastidio all’altro, di non urtarne la suscettibilità.
La parola riguardo, usata nell’espressione riguardo a, rimanda a una relazione, a un rapporto.

Sguardo.
Lo sguardo è una forma fondamentale di interazione tra gli esseri umani a partire dai primi stadi di vita quando, dopo poche settimane, prende avvio la relazione madre-bambino (Galimberti). Lo sguardo trasmette segnali. Questi segnali sono differenti nel tempo storico e nello spazio geografico in funzione della visione del mondo e del codice di quel sistema antropo-culturale cui si riferiscono.
In campo fenomenologico lo sguardo è una forma primaria dell’essere-per-altri, atteggiamento che si esprime al massimo grado nell’amore. Si comprende così come lo sguardo sia strumento d’amore, nel senso di fattore operativo che promuove interazioni in vista di una relazione, ripercorrendo un antico itinerario di riconoscimento, che ha il suo primo modello nel riconoscimento della madre da parte del bambino e la nota conseguente risposta-sorriso.
Gli esempi nella letteratura, arti figurative e cinema, sono molto noti e numerosissimi.
Scegliamo solo alcuni esempi eloquenti e allusivi tratti dai poeti dello stil novo:
Lo vostro bel saluto e ‘l gentil sguardo (Guido Guinizzelli)
Voi che per li occhi mi passaste ‘l core(Guido Cavalcanti)
De’ più begli occhi che lucesser mai (Cino da Pistoia)
Che li occhi no l’ardiscon di guardare (Dante)

Intimità.
In campo amoroso l’intimità è una relazione di amicizia, confidenza o stretta familiarità, che, per estensione, viene utilizzata anche per relazioni sessuali o riferimenti sessuali (le parti intime, cioè le più interne tra i vestiti che le coprono). L’intimità dell’amore fa ancora più riferimento a un campo di forze (razionale, affettivo, comportamentale) che crea un ambiente, un eco-sistema, in cui ci si trova e ci si sente in perfetta familiarità, armonia, agio, libertà. E, quindi, disposti ad abbandonarsi con fiducia all’altro.
Affidarsi è una difesa migliore del difendersi, diceva un mio paziente in seduta.

Psicoterapia e arte dell’amore.
In psicoterapia, un riferimento ineguagliabile rispetto all’arte di quella cura ci pare il concetto di mit-einander-sein-in-der-liebe, sviluppato da Binswanger come argomento centrale nella relazione: è il modo di essere insieme nell’amore, che Danilo Cargnello riassume in con-essere-nell’-amore o modus amoris (Alterità e alienità, 1966).
Il modus amoris è contrapposto alla Sorge (Cura) di Heidegger.
Se Heidegger addita la via alla autentica rivelazione e attuazione di se stessi nel sottrarsi ai richiami mondani e nella libera accettazione del proprio destino, Binswanger invece la indica nella possibilità della presenza di progettarsi il più liberamente possibile in compresenza (co-presenza), fino al traguardo della completa unione nella dualità dell’amore (Cargnello)
Ludwig Binswanger (1942) definisce l’amore come la forma più alta in cui viene espressa la apertura del Dasein (esserci), “Il ci dell’esserci, indica quell’apertura grazie a cui l’esserci, duale, è là in vista di noi, di me e di te, dell’un altro, l’essere-sé-stesso dell’amore, la sua ipseità, non è un io, ma un noi“.
Ne deriva una particolare mutazione spazio temporale. Si rimanda però a una differenza di fondo tra Binswanger e Heidegger. Mentre per Heidegger la morte è senso decisivo dell’esistenza; per Binswanger l’amore ha un primato ontologico sulla morte, per cui l’altro appartiene eternamente. C’è un fattore eternizzante dell’amore. Teoricamente, se passato per millenni da persona a persona, l’amore per qualcuno ormai morto è vivente e riproducibile in modo perpetuo. Questo potere eternizzante dell’amore (Galimberti) elimina l’antitesi presente-assente, perché ognuno può morire come individuo, ma non come Tu per l’Altro. E questo si applica sia allo spazio che al tempo della terapia, intesi come spazio e tempo d’amore.

Spazio dell’amore.
Lo spazio dell’amore cancella tutti i luoghi, è dappertutto. E’indipendente dai concetti vicino/lontano. Vi è illimitatezza della spazializzazione dell’amore. L’essere-insieme-nell’amore è un essere-nel-mondo e contemporaneamente un esserne al di fuori e al di sopra “oltre“ …Si può essere nel dove di un altro senza escluderlo né schiacciarlo. Tale spazialità è la patria dell’amore, luogo che massimamente gli è proprio, verso cui da sempre tendeva, e ad-tendeva. Il vero amore non fa rinunciare a se stessi, ma arricchisce, accresce, completa. Il senso del dono in terapia. Donar-si è diverso da donare. Donar-si non implica alcuna perdita del sé. Donare implica una rinuncia di o da sé. In amore il donarsi è un ricevere l’altro. L’Io è il Tu. Il Tu è l’Io. Nella lontananza spaziale dell’amore non c’è distacco, ma la sua presenza altrove. Dare il senso della presenza anche nell’assenza. E quindi, in ogni buona psicoterapia, chi usa questa arte fa in modo che l’altro del Paziente sia in continuo contatto d’amore. Nel senso che gli intervalli tra le sedute, le ferie, le assenze del terapeuta o del paziente, sono sentite da questo come piene dell’altro. Lo spazio della terapia è presente anche nel’assenza.

Tempo dell’amore.
Il tempo dell’amore si concentra in un eterno istante, oltre il passato, presente e futuro; è per sempre. Per Nietzsche L’amore non pensa alla lunghezza del tempo ma all’istante e
all’eternità. Nella lontananza temporale dell’amore non c’è amnesia né ricordo, ma contemporaneità. Per cui in psicoterapia il tempo dell’incontro si prolunga in un tempo successivo, rimandando a un passato, e vivendo un continuo presente dell’esperienza di cura.
L’amore prescinde dall’età anagrafica. In tal modo si sottrae alla morte. Una buona psicoterapia, in tal senso, non finisce, ma rimane esperienza costitutiva e trasformativa nell’esistenza.

Il cuore.
Binswanger afferma che nell’essere-insieme-nell’amore l’esserci si scopre come “cuore” e il “ci” dell’esserci (il Da del Dasei) si dischiude come patria del cuore.
In questa patria c’è “pura esaltazione, pienezza, indeterminata e non divisa, ineffabilità, immobilità silenziosa, quasi senza respiro”.
Nell’esperienza psicoterapica non può mancare questo elemento emotivo di alleanza quale senso condiviso dell’incontro.

Amore e rivelazione.
C’è poi un elemento finale, in ogni autentica psicoterapia, la trascendenza dell’incontro, che ne fa non solo un evento terapeutico ma un inevitabile cambiamento dell’esperienza per chi vi partecipa. Non si tratta solo di una comunicazione non verbale. O di attenzione fluttuante. Ma di una sorta di intesa, un tendere-in, verso un nucleo centrale. Nelle parole, nei gesti, nelle pause, nei silenzi, è inteso ciò che non si svela, perché va oltre la comunicazione verbale. Oltre la psiche. Oltre la psiche, abita, nella patria del cuore, il carburante, il soffio vitale della terapia. Questo ingrediente non si insegna, non so dire quanto sia innato e quanto appreso dall’esperienza. Si apre in maniera sempre sconvolgente, nella dimensione di un legame senza vincoli, lecito ma importante, che fa sentire al terapeuta la vera partecipazione dell’altro, il suo piacere di esserci, ma, soprattutto, fa cogliere all’altro, alla persona definita paziente, il senso dell’esserci del terapeuta per il suo interlocutore. Si tratta di una reciproca rivelazione.
Kierkegaard ricorda che chi non può rivelarsi non può amare, e Binswanger aggiunge che chiunque non può amare, non può darsi, non può rivelarsi: amore e rivelazione di se stessi sono la stessa cosa.
In fondo al sacco dell’arte nella cura, troviamo forse solo questo. L’imprescindibile gesto d’amore. Che va coltivato nel tempo, giorno dopo giorno, come una piantina.

STEFANO MAZZACURATI Psichiatra, psicoterapeuta. Già Primario ospedaliero. Scrittore, membro dell’International Pen Club.

Redazione NuoveArtiTerapie
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