
02 Nov Recensione a Duccio Demetrio: La scrittura clinica
La scrittura clinica: conseguenze autobiografiche e fragilità esistenziali. Duccio Demetrio – Raffaello Cortina Editore, Milano 2008 pp. 467
Ho un po’ di difficoltà nell’avventurarmi nella recensione di questo libro in quanto ad una prima lettura l’ho trovato commovente, e la commozione non fa recensione, è un fatto personale. Ma non essendo un critico, ma un counsellor, posso ben dire che effetto mi ha fatto: ebbene sì, mi ha commosso. Commovente la passione che serpeggia fra le righe di chi ha dedicato tutta la vita alla scrittura ed in particolare alla scrittura delle vite degli altri, di chi ha lavorato con pazienza e metodo per accogliere e a raccogliere racconti di vita. E nello scrivere di chi ha scritto di scritture, l’umanità scintilla riflettendosi all’infinito nella magia di un gioco di specchi: questo mi ha commosso. Credo di aver detto già tutto, ma il tutto, o il senso, non è mai abbastanza.
E allora vado a scrivere o a descrivere (rubando qua e là parole all’autore, non me ne voglia) cosa ha reso possibile questo gioco ed in che modo questo magico strumento (la scrittura) possa essere altresì strumento di “cura”, senza offrire proposte di guarigione ma di conoscenza (cosa che non è mai stata del tutto tranquillizzante e pacificante ), possa proporsi come disciplina del pensiero che rende possibile la formazione dell’adulto, possa essere un balsamo lenitivo tutte le volte che serve passare attraverso o vedere oltre.
A commento del titolo e per avvalorare una precisazione fatta da Demetrio (ed alla quale dedica un capitolo nella parte quarta del testo “Clinica in discussione”) premetto che il libro non intende occuparsi di chi si è soliti chiamare paziente da un punto di vista medico, farmacologico, o psicoterapeutico, né tantomeno si propone di affrontare la scrittura di casi clinici.
Per l’autore “… la clinica … non è uno spazio esclusivo… bensì la terra di mezzo di un incontro esperienziale, fondato sulla mediazione di una parola vissuta- tanto come pratica di ascolto che di interlocuzione- e sul reciproco sentirsi presenti nella vicinanza.”
“Clinico” dunque è un modo di rapportarsi trasformativo, educativo, nel senso di e-ducere, tirar fuori, e di fatto la scrittura opera un’azione maieutica ed il facilitatore è una presenza che accetta la distanza come postura fondamentale dell’esistenza che rende possibile l’interazione fra chi ascolta e chi scrive. Consulenze autobiografiche e fragilità esistenziali, continua il titolo. Ci sentiamo meglio dopo aver scritto non perché abbiamo risolto il problema, espulso un morbo, un dolore, un groppo alla gola, ma perché lo abbiamo semplicemente trasferito. Quel tormento si è solidificato in una pagina, non ci appartiene più, pur essendone gli autori, ma proprio perché siamo gli autori di quella pagina lo possiamo trasformare: “clinica la mano che ha fatto esperienza del foglio giaciglio, clinico il processo della rilettura, clinico lo sguardo leggente.” Questa la posizione che Demetrio propone e descrive.
Autos (io stesso), Bios (io in un’esistenza storica), Graphei (io nella mia scrittura) questo il processo dialogico fra sé e se stessi che si realizza in un’esperienza autobiografica (con o senza il facilitatore) e di questa esperienza Demetrio ce ne offre le tracce, che tutte insieme ne rappresentano il modello, il modello dell’esperienza delle esperienze altrui.
L’autobiografia è una provocazione, provoca la rievocazione dell’esperienza, aiuta a non fingere, a ricordare, a riconoscere l’emozione nel ricordo, a ripensare il rapporto con la memoria, a considerare da differenza fra desiderio e percezione, a considerare l’opinione che abbiamo della nostra vita e come questa cambia con l’età. Ognuno dà forma alla propria vita secondo la propria idea del bello, scrive Kundera, e questo si può fare, anche scrivendo, considerando e riconsiderando il senso del bello e della vita. Tante le forme della scrittura autobiografica che Demetrio prende in considerazione, ma la distinzione non ha il sapore della catalogazione, bensì del discernimento volto a riconoscere la pulsione verso la scrittura di sé, le ragioni o il bisogno di dilatare l’esperienza, di renderla concreta nella scrittura ed in quanto concreta, ristrutturabile.
Scritture del congedo, del cordoglio, dell’espiazione, della riconoscenza, sono tutte declinazioni del modo in cui la vita prende forma. “Da un amore finito al lager la scrittura rimette il trauma all’opera, aggredisce le mura dell’esilio incancellabile” per esistere, ex-sistere, collocarsi in un altro luogo: vedere nel reale il possibile, questo il dono.
Da un silenzio attento (titolo della prima parte in cui l’autore presenta lo strumento magico e misterioso, l’atteggiamento, la postura di una mano che scrive, “di sé, di me, di io”)… “le parole prosciugate dal suono escono dalle angustie della contingenza e accedono ad una loro eternità…” nel modo e nella forma che scegliamo per loro. Demetrio osserva che prima dell’opera, opera d’arte, di scrittura, di parola, non c’è artista, scrittore o soggetto parlante: è la produzione che produce il produttore, e, in quanto ne dà la prova, lo fa nascere o apparire, e, aggiungerei, ne rende testimonianza. L’autobiografia come esperienza di separazione, quindi, e solo se c’è separazione può esserci alleanza.
L’opera di Demetrio, deliberatamente colta ed erudita, trascende la stessa erudizione e cultura dell’autore e per questo non ha il sapore polveroso del manuale o del trattato. Le frequenti citazioni e rimandi hanno il senso di “dare la parola” a chi ha già vissuto ed ha scritto di un’esperienza o di un’emozione e la lettura ne permette l’evocazione. L’opera in tal modo assume i toni di una rimembranza collettiva, di un coro armonico sotto la guida si un sapiente direttore. Non dovrebbe essere questo la vita?
A chi è rivolta l’opera di Demetrio, mi sono chiesta, ma più per una prassi redazionale che altro. L’opera è rivolta a tutti coloro che intendano approfondire…Scrivere questo mi suonava come “in caso di mal di testa una pasticca dopo i pasti”. Piuttosto avrei voluto sapere a chi pensava quando scriveva. Lettore io ti racconto che …bla bla… così tu … no, non credo che abbia funzionato così. Certo nello scrivere un’autobiografia questo lettore non esiste. Non è a lui che ci rivolgiamo.
Ciò che ci spinge è un bisogno di senso, è la ricerca di un’esperienza estetica che si compie scrivendo. Io credo che questo libro renda testimonianza alla vita dell’autore, e per questo ha il sapore del “vero”, è quello che è successo a lui che ha messo insieme, che ha “rimembrato”, la sistematizzazione di un pensiero, di una modalità per abitare “la terra di mezzo di un incontro esperienziale”. Sarà lui a smentirmi forse, ma ben venga.
A chi è rivolto? A tutti quelli che ne vogliano fare esperienza.
Mariella Sassone