
06 Nov Shooting Around
Diario di un percorso di (forse) foto arteterapia ed altro
di Fabrizio Delle Grotti
…E poi è arrivato il momento che ho fatto crack.
Ci sono ferite che tendono a cicatrizzare naturalmente con una certa facilità, altre meno.
Ci sono fratture che si calcificano con naturalezza e con vigore, altre meno.
Ed io quella volta ho fatto crack. L’essere umano non sembrerebbe per natura portato a pattinare sulla sabbia, a sciare nella merda e a navigare nella notte nella totale assenza di riferimenti. La vita è tuttavia un’esperienza bizzarra e sorprendente che talvolta ci porta a pattinare nella sabbia, a sciare nella merda e ci richiede talenti e risorse che non sempre sappiamo di avere. Avevo messo via i pattini da circa trent’anni ed ho sempre odiato lo sci; mi trovavo comunque lì e non avevo altra scelta, non mi restava che provarci, non mi restava che trovare un modo, un come.Non avevo chiesto la bicicletta ma mi toccava pedalare lo stesso.
Dopo il crack si trattava di fare i conti con ciò che rimaneva e al contempo con ciò che di me era irrimediabilmente perduto. Andare in pezzi e non sapere quali pezzi fossero ancora buoni, quali distrutti, quali celati dal dolore e dalla rabbia. Frammenti, frantumi e parti di me sparpagliati fuori e dentro. Pezzi di me affogati per sempre in un abisso di dolore, altri lasciati andare in uno scatolone o in un tramonto che mi ricordava che oggi è solamente oggi e che proprio per questo non tornerà più.
Pezzi di me in fondo ad un bicchiere di birra, in spiaggia in riva al mare, nella vertigine della musica che mi ricordava che il corpo era ancora vivo e pieno anche quando non avrei voluto. E poi pezzi affogati nel veleno del rancore che mi intossicava e mi sopraffaceva; bruciati da quel fuoco di rabbia cieca che poteva bruciarmi.
In questo panorama di desolazione e dolore comincia come per caso un processo che mi porta a posare, a tratti, intensamente lo sguardo all’esterno, fuori da me, forse proprio là fuori dove ho paura di essermi sparso e perso. La mia arma strumento è ora semplicemente la macchina fotografica del mio telefono cellulare. Particolari inconsueti del mondo esterno mi colpiscono e mi toccano, mai come ora la percezione visiva è un processo motivato e intenzionale che trova nel mondo emotivo la sua spinta.
Insegne, scritte, paesaggi ed in particolare oggetti inanimati, consunti e “abbandonati” diventano il mio oggetto di interesse e di attenzione e comincio a scattare e a scattare e a scattare ancora. Finalmente posso “scattare” e non solo di nervi.
Gli oggetti esterni a me sembrano somigliarmi e descrivere ciò che dentro di me è confuso, dolente, folle e non descrivibile in parole. Proprio l’“inconsuetudine” e l’abbandono descrivono attraverso l’immagine ciò che sento, accompagnandomi nel mio percorso e nei miei “scatti di rabbia”.
Una parte di me vuole spegnersi e non sentire, una parte grida di rabbia e mentre ciò avviene i miei occhi vivi e pulsanti cercano il mondo e cercano nuove forme, trovando in esse specchi della mia identità e di ciò che non sembra trovare altre forme di espressione.
I miei pensieri sono fissi, ossessivi e “malati”, il dolore e la furia sembrano rendermi cieco Ma i miei occhi sono vivi e continuano a guidarmi anche dove ho paura di andare e di vedere.
Comincia un po’ per caso un po’ per vera necessità dell’organismo l’avventura che definisco “shooting around”, dove shoot ben rappresenta il doppio significato di ciò che mi muove, forse “sparare” e forse “scattare fotografie” in una dimensione inquieta, sofferta e mobile, proprio come ora sono io.
I miei occhi sono la guida nella ricerca e la fotocamera del cellulare si alterna alla mia compattina Sony, regalo di un tempo passato, fortunosamente recuperata e che naturalmente decide con una certa “autonomia” quando funzionare e quando bloccarsi, un po’ come sta succedendo a me.
Comincio a “scattare in giro” che è forse meglio che “sparare in giro” ed il mio vagare acquista nuove forme e nuovo senso. Non so se tutto ciò possa definirsi arteterapia secondo canoni metodologici e teorici “tradizionali” ; ciò che so è che questo percorso è servito e serve a me per salvarmi il culo e la pelle laddove mi sembrava di non trovare altre strade e altri modi. L’avventura della fotografia, inizialmente impulsiva, compulsiva, disperata e vorace mi ha portato a dare voce, forme e colori a ciò che in me soffocava nel buio.
Guardare e “cogliere” le stranezze del mondo esterno serve a descrivere le stranezze del mio mondo interno, e la macchina fotografica diventa la mia alleata, la mia forza e la mia arma contro la bestia che poteva condurmi ad altri tipi di “shooting”.
La fotografia mi ha permesso di cogliere e dilatare prospettive differenti, estreme e di raccontare per immagini il romanzo della mia vita e la cura del mio crack. Mi ha permesso di cogliere tutta l’anima che emerge negli oggetti inanimati e abbandonati, curando le parti di me che percepivo altrettanto inanimate e abbandonate, aliene, stranianti.
Le scritte sui muri, le insegne e le parole incontrate lungo il percorso divengono la voce del mio dolore che altrimenti rischia di soffocare in un silenzio di rabbia muta.
Fotografare e “adottare” parole è come la descrizione di un processo interno dove “alto fragile” è la mia vita, “non è una discarica qui” è la mia vita, “edificio pericolante” è la mia vita; “attenzione – warning” è la mia vita; “tutt’al piu’ muoio” è la mia vita, dove anche “chiudere p.f.” diventa il ritratto di un momento e di un bisogno che richiede ascolto, quello appunto di chiudere, cioè di portare a compimento ciò che è rimasto incompiuto e di farlo “p.f.”: per favore.
Al contempo nasce con le immagini la naturale tendenza a dare nomi, titoli, parole e voci agli oggetti e alle situazioni, animando così e dando “piena dignità” ai compagni della mia solitudine, a quelle parti di me che i miei occhi mi portavano e mi portano inevitabilmente ad incontrare. Entrano allora in quello spazio evocativo e metaforico Gastone, Orifizio Arancione; Juanito, adorabile marito; Ettore e tanti altri. E poi tutte le immagini che non possono non avere un titolo e una voce (Legàmi del Cactus; Finalmente Fuori; Io e Gastone, splendida coppia; Some Where, Beach Where; ecc.).
Scopro inoltre il richiamo a puntare talvolta l’obiettivo della macchina fotografica proprio su di me, cogliendo momenti e frammenti di me con i quali aprire un difficile quanto creativo e fertile dialogo interno. I miei occhi, la mia pelle, le mie mani, il mio corpo con tutto quello che di me e da me richiede spazio e voce. Fermo i momenti dell’angoscia, della tristezza, della furia e della speranza ed ascolto ciò che questo dialogo sempre aperto svela e dipana, ogni volta diversamente.
Solo successivamente emerge il bisogno di condividere e di mostrare le immagini, di concretizzare nel rapporto con gli altri il “frutto” del mio itinerario. L’espressione creativa è come bisogno di ritrovamento e di integrazione, come ponte nelle relazioni di “cura” e di scambio. Di certo il setting della mia terapia personale è stato ed è sovente il luogo dove il materiale fotografico acquisisce un nuovo spessore “tridimensionale”; una dimensione multifocale dove i miei occhi condividono con altri occhi le “immagini di me”. Le foto parlano, raccontano, gridano, implorano, bestemmiano e chiedono. Nel fluire del tempo e dello spazio le foto curano e sanano la frattura che sembrava insanabile.
Dove non trovo le parole per descrivere ciò che sento le foto mi vengono in aiuto a comunicare in altro modo, attraverso il racconto co-costruito con gli altri. Spesso le persone che vedono le mie foto usano un termine che ricorre, di volta in volta associato ad un’immagine diversa. La parola è “inquietante” e mi colpisce come proprio l’inquietudine emerga in ognuno rispetto alle foto e come tale vissuto sia rintracciabile in immagini tra loro diversissime, talvolta apparentemente molto “leggere”.
Il racconto si arricchisce allora qui anche del feed back dell’altro, che inevitabilmente aggiunge alla narrazione fotografica il suo personale vissuto, quell’eco che trasforma ancora l’esperienza arricchendola e aggiungendo ad essa altri sapori e altre sfumature.
Spesso si pensa e si può ritenere che la fotografia sia una rappresentazione “statica” della realtà che fissa nel tempo un momento e una situazione. Se inserita in una realtà viva e pulsante la fotografia sembra divenire invece un processo altamente dinamico e mobile che mette in relazione parti e polarità differenti mantenendo vivo il dialogo tra queste parti che altrimenti resterebbero mute. La foto può diventare oggetto fisico da toccare, guardare e annusare, sentirne la temperatura e la grana e diventare racconto sempre in evoluzione.
Fabrizio Delle Grotti – psicologo, psicoterapeuta, gestalt counsellor
Quattrini P., Psicologia della creatività e arte, Nuove Arti Terapie, Anno I°, N.2/2008, Rossi, 2008
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