
10 Lug Trauma collettivo tra visibile e sommerso
Resoconto di un’esperienza psicodrammatica
di Florenza Inzerillo, Rossella Chifari, Paola Cavani, Crocetta Minneci
Abstract
Abitiamo un tempo in cui, tra drammi visibili e sommersi, il trauma collettivo si impone come uno degli organizzatori psicopatologici che fra vecchie e nuove caratteristiche segna ferite psichiche e (de-)forma lo spazio sociale. Le guerre apparentemente straniere che sbarcano con i migranti o rimangono sommerse nel mare, il dramma di chi denuncia la criminalità organizzata: conflitti e lacerazione visibili e sommerse che generano sofferenze psichiche in grado di organizzare l’identità individuale e collettiva intorno a esperienze e vissuti traumatici che inevitabilmente si depositano nell’inconscio collettivo. Il presente articolo vuole presentare l’esperienza di psicodramma svoltosi a Palermo nel mese di Aprile con la presenza del Professore Maurizio Gasseau. Attraverso diversi spunti teorici e con il gruppo esperienziale di psicodramma condotto dal Professore Gasseau, si è visto come lo psicodramma si configura come lo spazio trasformativo attraverso cui pensare ed elaborare simbolicamente il trauma collettivo.
Nel mese di aprile di quest’anno [2017, n.d.r.], l’Associazione per la ricerca e la formazione in psicoterapia individuale, di gruppo, istituzionale di Psicodramma Analitico APRAGIP- sede di Palermo, ha organizzato un workshop dal titolo “Trauma collettivo tra visibile e sommerso; il lavoro simbolico e rituale attraverso lo psicodramma”, esperienza impreziosita dalla presenza del Professore Maurizio Gasseau. L’idea progettuale nasce dall’esigenza di affrontare con una lente teorica adeguata, alcune dinamiche che caratterizzano il nostro vivere quotidiano, nei termini più esistenziali possibili, caratterizzato da profondi drammi sociali che condizionano il nostro modo di sentire e di percepire la realtà.
Il gruppo di Palermo ha deciso di offrire interessanti spunti teorici e di approfondimento circa le manifestazioni psicopatologiche definite col termine di trauma collettivo. Attraverso stimolanti relazioni i partecipanti hanno colto quel fil rouge all’interno di situazioni apparentemente così diverse e lontane tra di loro, ma che tuttavia coinvolgono in maniera massiccia la Sicilia e i siciliani: il dramma dei migranti forzati e il dramma delle vittime del racket. Il workshop ha pertanto affrontato i vissuti sperimentati da chi denuncia forme di criminalità organizzata, ma anche la sofferenza psichica che scaturisce da chi non riesce a trovare voce per denunciare. Tale sofferenza psichica inespressa organizza l’identità individuale e collettiva di un soggetto, condizionandone il proprio modo di sentire e di affrontare il quotidiano. La capacità di ogni individuo di fronteggiare lo stress emotivo associato ad un’esperienza dolorosa o sconvolgente è profondamente connessa alle caratteristiche dei propri modelli operativi interni (MOI). Gli studi di Cantor (2005) sul disturbo post traumatico da stress dimostrano come il sistema di difesa, quando attivato da una minaccia grave alla quale si è sopravvissuti, implica una memorizzazione forzata e ripetitiva dell’evento traumatico, che, se non viene individuata e trattata precocemente, può dar vita ad una condizione post traumatica che incide negativamente sulle rappresentazioni che guidano l’interazione sè-altro, e sugli schemi affettivi che orientano l’approccio alla realtà, procurando vissuti emotivi intollerabili e rendendo l’individuo maggiormente vulnerabile a episodi di ritraumatizzazione. I vissuti catastrofici vengono attivati non soltanto da manifestazioni violente ed eclatanti, ma da esperienze quotidiane silenti di terrore e di paura, così come il lavoro clinico con le vittime di racket e di usura dimostra. Spesso tali soggetti riportano immagini ed esperienze di morte (dagli attentati alle intimidazioni) scolpite nella memoria individuale e collettiva, esperienze che generano sfaldature nella trama connettiva della vita sociale, pervadendo la Comunità con un senso di destabilizzante insicurezza e precarietà, esponendo al rischio di sfaldamento non solo l’“Io”, ma soprattutto il “Noi collettivo”.
Davanti a questi strappi della trama connettiva sociale assistiamo, a livello collettivo (e non solo), alla messa in atto di operazioni psichiche volte alla riparazione delle lacerazioni accadute che oscillano fra memoria e negazione e/o ridimensionamento della portata degli eventi traumatici: l’urgenza di ricordare così come il bisogno di dimenticare appaiono entrambe operazioni psicologiche indispensabili per poter “abitare” il presente, consentendo nel tempo la ricostruzione del senso di sicurezza perduto e l’idea (forse illusoria) che quanto avvenuto non potrà accadere ancora. Queste operazioni psichiche si possono osservare frequentemente nelle vittime di traumi collettivi, come ben descrive Daniele Salerno (2012) nel testo Terrorismo, sicurezza, post-conflitto. Studi semiotici sulla guerra al terrore, in cui viene riportato il bisogno di ripristinare quel senso di “idillio metropolitano” fra i cittadini di Londra dopo i recenti attacchi terroristici. Analogamente, la dinamica fra ricordare, in quanto atto di sopravvivenza, e dimenticare, in quanto atto di rassicurazione, sembra necessaria per ripristinare nuovamente quell’idillio collettivo che, in terre segnate dall’azione di Cosa Nostra, consente la normalizzazione delle vite di ciascuno e il compiersi di una “pseudo normalità”.
Com’è possibile allora intervenire su quel vissuto definito da Van der Kolk col termine “trauma complesso”? Numerosi studi portati avanti da autori come Fonagy, Liotti, Caretti e Capraro, propongono il concetto di affettività mentalizzata per l’elaborazione del disturbo traumatico: la mentalizzazione offre una nuova prospettiva integrata tra cognizione ed emozione. Il trauma minaccia di intaccare la mentalizzazione, ma se questa si esercita, il trauma può essere superato. Autori come Fonagy sostengono l’importanza della regolazione affettiva come base della mentalizzazione, ma quest’ultima promuove un nuovo tipo di emozione e autoregolazione che è l’affettività mentalizzata: nuovi significati possono essere creati e specificati grazie alla riflessione sull’esperienza affettiva, alla luce della memoria autobiografica. In accordo con Damasio sosteniamo che la memoria autobiografica è quella capacità di richiamare eventi passati vissuti personalmente. Essa contribuisce al proprio senso di sè e alla capacità di restare concentrati su uno scopo, sulla base di decisioni prese nel passato. La memoria autobiografica è direttamente alimentata dall’affettività mentalizzata. La capacità di viaggiare indietro nel tempo consente di far assumere nuove forme e più sfumature alle emozioni, dare nuovi significati a vecchi affetti promuovendo l’esperienza di emozioni positive ma anche favorendo la capacità di tollerare e affrontare le emozioni negative, grazie ad una reinterpretazione. Lo psicodramma si pone quindi come tecnica espressiva privilegiata per visualizzare nel qui ed ora emozioni rivisitate legate ad esperienze passate, reali o immaginarie. La tecnica psicodrammatica può infatti portare alla comprensione differenziata dei molteplici elementi dell’affettività attraverso l’identificazione, l’elaborazione e l’espressione degli affetti.
Lo Psicodramma, attraverso tecniche specifiche (dal cambio di ruolo al doppio), privilegia il contatto e l’esplorazione di parti poco visibili, di cui non abbiamo consapevolezza in quanto parti ombra, terrifiche e paurose, ma spesso organizzate sotto forma di modelli operativi interni, che guidano e determinano i nostri comportamenti orientandone lo stile eidetico e determinando la comparsa di stati emozionali che alla lunga risultano disorganizzanti. La visualizzazione di tali contenuti avviene contemporaneamente nei tre differenti registri: immaginario, simbolico e reale.
L’esperienza di psicodramma
Il gruppo esperienziale è stato condotto dal professore Maurizio Gasseau articolato in due sessioni: il sabato dalle 14:00 alle 18:00 e la domenica dalle 9:00 alle 13:00.
Durante la prima sessione, ancor prima di attivare i giochi di riscaldamento il conduttore ha rivolto al gruppo una domanda in riferimento alle paure profonde di ciascuno, probabilmente sollecitate dalle relazioni ascoltate durante la mattinata. Conseguentemente tutti i giochi di riscaldamento iniziali sono stati centrati sull’acquisizione della fiducia sia rispetto a chi conosciamo già, ma soprattutto rispetto a chi non conosciamo. Il gruppo di psicodramma è stato fervido di sogni dalla chiara matrice sociale: le paure e le angosce sperimentate da ognuno di noi, in quanto cittadino di un mondo a rischio di attentati terroristici, si sono intrecciate nella produzione onirica dei diversi membri con un livello soggettuale, riferito alla propria storia personale e familiare e ai ruoli più o meno cristallizzati che sperimentiamo durante la nostra esistenza.
A differenza di Freud, che considera il sogno come la via regia per la comprensione del passato inconscio dell’uomo, per Jung i sogni posseggono una funzione prospettica con uno sguardo sul futuro. Nell’ottica psicodrammatica sogno e inconscio vengono considerati come un dramma di ruoli interni che agiscono nello spazio interiore quasi sempre resi invisibili alla coscienza. Lo psicodramma, come tecnica di rappresentazione, consente proprio quella visibilità, all’interno di uno spazio drammatico, “il palcoscenico”, grazie al quale è possibile ridare un senso al proprio dramma interiore consentendo l’interazione tra vecchi ruoli e nuovi ruoli progettuali. L’esperienza di Psicodramma in riferimento alla tematica del trauma collettivo, ha dato la possibilità ad alcuni membri di rivivere situazioni di paura mista a impotenza e a senso di totale scoramento e sfiducia, riprovando le emozioni di allora e attraverso i cambi di ruolo, riprovare quelle di colui o di coloro con cui c’è stata un’interazione. Lo psicodramma analitico non persegue l’obiettivo di riprodurre quantitativamente l’intensità dell’emozione immaginaria ma piuttosto ne ricostruisce qualitativamente le sfumature, i significati profondi, i collegamenti con immagini interiori.
Tutto ciò è stato reso possibile grazie alla tecnica del role playing, ma soprattutto da un doppiaggio efficace del conduttore. Ciò che è emerso nella seconda e ultima sessione è stata l’effettiva messa a fuoco di una paura sociale riprodotta nelle sue componenti verbali, mimiche, gestuali che trova elementi risolutivi nella stessa produzione onirica di chi ha giocato il proprio sogno. Il sogno finale è il prodotto di un inconscio collettivo gruppale, i cui contenuti psichici sono ormai chiaramente impersonali e non individuali, sogno ricco di immagini archetipiche e mitologiche. Merito dell’osservatore è stato quello di restituire al gruppo l’unicità delle esperienze drammatizzate pur nel rispetto della soggettività di ognuno.
BIBLIOGRAFIA
- BINSWANGER L., (1970), Per un’antropologia fenomenologica: saggi e conferenze psichiatriche, Feltrinelli, Milano, trad. it. a cura di F. Giacanelli.
- ERICKSON K., (1976), Everything in Its Path, Simon and Schuster, New York.
- SALERNO D., (2012), Terrorismo, sicurezza, post-conflitto. Studi semiotici sulla guerra al terrore, Libreria Universitaria.it Edizioni, Padova.
- CARETTI V., CRAPARO G., SCHIMMENTI A., (2013), Memorie traumatiche e mentalizzazione, teoria, ricerca e clinica, Astrolabio.
- GASCA G., (2005), Uso dello psicodramma analitico nella supervisione degli interventi psicoterapeutici. Psicodramma Analitico, Lindau