10 Gen Un nuovo amore
di Mariella Sassone
Mi innamoro sempre dei morti, sì è così. Mi innamoro di quello che hanno lasciato, delle loro tracce nel mondo, di quelle tracce che mi restituiscono un briciolo di esistenza fin’ora inesplorata permettendomi di percorrere nuovi sentieri senza paura: se altri ci sono passati forse alla fine non c’è il burrone, ma un briciolo di libertà.
Questo accade spesso e questo è accaduto ancora una volta andando a vedere la mostra di Georgia O’Keeffe a Roma. La conoscevo appena, solo attraverso qualche opera isolata, vista qua e là in altri ambiti e contesti, considerata solo un evento americano o semplice provocazione. E invece l’ho incontrata nelle sue tracce affidate a me che ho letto in esse il mio messaggio augurale. Proprio come un augure che scruta il cielo ho cominciato a guardare i suoi quadri come eventi, come il momento esistenziale che è intercorso fra i suoi occhi e l’oggetto osservato. Ed un altro momento era lì, fra i miei occhi e i suoi quadri che dei suoi stessi occhi erano testimonianza, un’interazione che espandeva la percezione per offrirla agli altri sensi, riempiendomi di caldo, freddo, umido, fragile, fresco, rugiada, secco, deserto. Questo il mio sentire per lei, per la sua pittura che non racconta ma che stana l’essenza, per lei e la sua arte, lei e la ricerca di quell’essenza, della bellezza che è andata a cercare, ed a rendere. Questo il mio augurio di fronte alle sue tele, il mio essere vicina a questa donna bellissima, soprattutto da vecchia, vecchia che è il contrario di giovane, vecchia che non vuol dire adulta né anziana, ipocrita eufemismo che stucca i segni del tempo impolverandoli con un velo. Vecchiaia è quell’età della vita che raccoglie il tempo e lo rappresenta, e lei stessa, in vecchiaia, era diventata opera viva dell’arte che è stata la sua vita. Si, si chiama fascinazione, rapimento, ripeto mi sono innamorata.
Compro un libro, le sue memorie(1), scritte da lei a più di ottant’anni. Iniziano così:
Il significato di una parola non ha per me la stessa precisione di quello di un colore. Colori e forme hanno la capacità di affermare in modo più definito rispetto alle parole. Lo dico perché, con le parole, sono state fatte operazioni strane su di me. Spesso mi è stato detto cosa dipingere. E spesso sono rimasta allibita di fronte alle parole, scritte e parlate, con cui mi si diceva cosa avevo dipinto. Intraprendo questo sforzo di scrittura poiché nessuno oltre me, può sapere come nascono i miei quadri. Dove sono nata e dove e come ho vissuto è irrilevante. E’ quello che ho fatto dei luoghi e dei modi in cui sono vissuta che dovrebbe suscitare interesse.
L’interesse è il mio sentire per lei, il mio inter-essere con i quadri che portano il suo nome e per questa storia che racconto tessendo insieme immagini e parole. La scena si espande, i tempi si sovrappongono. In me che ora scrivo tracce di vissuti diversi, l’osservazione e la lettura, ora le mie emozioni. Voglio mantenere la distanza, non voglio violare la sua arte, ma permettere alla mia di manifestarsi, se arte è espressione d’essenza. Ma quale? L’amore è bianco dissi un giorno ad un amante, perché ha in sé tutti i colori. La conquista del bianco, questo è il senso dell’arte, grande mediatrice fra l’uomo e se stesso, ma per farlo occorre cavalcare l’arcobaleno.
…[riferito ad un suo lavoro] rappresentava … lo sforzo autentico di creare per me un qualcosa che avesse un significato. C’era anche un altro lavoro realizzato nello stesso anno che rispondeva a una mia reale esigenza di affermare qualcosa di mio.
Qualcosa di mio, scrive, non me stessa. E questo ha il sapore del bello e del sano, non c’è rivelazione né illuminazione, è il lavoro paziente che volge al riconoscimento ed alla responsabilità di ciò che si è riconosciuto che solo in quanto tale si può affermare, ossia dare per certo(2), rendere fermo, stabile, approvare(3). Affermare parti di sé, colori del proprio arcobaleno, è il lavoro di una vita, ognuno afferma quel che può nei modi che gli sono propri, non sono questioni di merito le differenze fra sassi e cristalli.
Fu nell’autunno del 1915 che, per la rima volta, pensai che tutto ciò che mi era stato insegnato non aveva grande valore per me….. quelle tecniche non mi sembravano altro che una seconda lingua con cui potevo esprimermi agevolmente. Ma la domanda era: esprimere cosa? Riflettendo sul fatto che fino ad allora mi era stato insegnato a lavorare imitando altri artisti, presi una decisione: non avrei trascorso il resto della mi avita a fare ciò che altri avevano già fatto.
… così decisi di ricominciare dall’inizio, di disfarmi di tutte le nozioni acquisite e di fidarmi delle mie idee. Fu uno dei periodi più belli della mia vita: nessuno che mi ronzasse intorno per vedere cosa stessi facendo, nessuno a cui interessasse il mio lavoro, nessuno che dicesse qualcosa a riguardo. Ero sola ed insolitamente libera.
“Ero sola ed insolitamente libera” è il contrario di “come al solito ero sola e disperata”: in una il pieno e nell’altra il vuoto, in una la libertà e nell’altra la mancanza, in una il movimento della conoscenza, nell’altra l’immobilità e il buio. Fra le due il lavoro. L’arte come necessità, dunque.
In termini fisici lavoro è lo spostamento di un oggetto generato da una forza ad esso applicata. Ci vuole forza, quindi, per essere soli, ci vuole forza per essere liberi e la O’Keeffe scrive Per crearsi il proprio mondo in una qualunque delle arti, di coraggio ce ne vuole molto. Mi piace usare le sue parole al di fuori delle sue intenzioni, d’altra parte non faccio sempre così? Colori di altri sulla mia tavolozza.
Fui particolarmente colpita da una delle idee sostenute da Bement(4), ossia la necessità di riempire lo spazio con la bellezza. Era un’idea che mi sembrava potesse essere applicata da tutti e in qualsiasi situazione, anche inconsapevolmente: ad esempio nel modo in cui si dispongono le porte e le finestre in una casa, o come si scrive l’indirizzo di una lettera e dove si appiccica il francobollo, o ancora nelle scarpe che si indossano o nel modo di pettinarsi.
Lontana da dissertazioni sul senso del bello e del sublime, sui moti dell’animo che entrambi suscitano, sul se e come ed in che misura siano patrimonio di un messaggio artistico, mi piace pensare che riempire lo spazio con la bellezza, faccia parte del lavoro che rende liberi. Arte quindi come atteggiamento esistenziale, lo stesso forse che chiamiamo creatività, ossia qualunque capacità trasformativa che anche se non assurge a livelli “artistici”, muta la forma, crea movimento, trasforma la solitudine, ne cambia la forma e le istanze interne, ne restituisce l’identità.
.. ho deciso allora che ero proprio un idiota a non cercare di dipingere come volevo e dire quel che volevo mentre dipingevo, poiché quella sembrava l’unica cosa che potessi fare che non interessasse altri che me, che non riguardasse altri che me….. mi sono resa conto che le forme e i colori mi permettevano di dire cose che non avrei saputo esprimere altrimenti, cose per cui mi mancavano le parole. Secondo alcuni uomini di giudizio la mia non è pittura, secondo altri lo è. Arte o non Arte, non tutti sono d’accordo.
Arte quindi non è per tutti e non lo è nello stesso modo e, per citare il sempreverde principio di indeterminazione, l’occhio dell’osservatore modifica il fenomeno osservato, come il mio ha colto, amplificato, distorto o trasfigurato ciò che ha visto.
Un fiore è relativamente piccolo. Un fiore o l’idea del fiore evoca in chiunque una serie di associazioni. Ci si avvicina a un fiore per toccarlo con la mano, o per sentirne il profumo, oppure lo si sfiora, magari inavvertitamente, con le labbra, o lo si dona a qualcuno come segno di affetto. Eppure, in un certo senso, nessuno si sofferma a guardare un fiore, a osservarlo realmente. E’ troppo piccolo, noi non abbiamo tempo, quel tempo necessario per una osservazione attenta, così come all’amicizia vera. Se dipingessi il fiore esattamente come mi appare, nelle sue dimensioni naturali, nessuno riuscirebbe e vederlo realmente.
Raccolgo l’invito, prezioso, di dedicare il tempo per una osservazione attenta e per una amicizia vera, da parte mia l’intenzione di osservare (composto di serbare, tenere per sé, custodire!) e di fare tesoro ed esperienza di ciò che ho visto, osservato e preso per me e poi … a ciascuno i suoi occhi e il suo cuore!
Al ranch un giorno giunse un giovane ceramista: osservandolo mentre lavorava l’argilla m’accorsi che sapeva farla parlare. I vasi che creava erano forme bellissime, levigate, quasi delle sculture. Non avevo mai realmente preso in considerazione la possibilità di lavorare la ceramica, ma in qual momento pensai che anch’io avrei forse potuto creare un vaso, magari un bel vaso, e trovare forse un altro linguaggio per esprimermi.
Ruotavo e plasmavo l’argilla, ruotavo e plasmavo. Cercai anche di levigarla, ma con pessimi risultati. Lui mi diceva:«Continua, continua, devi lavorarci, l’argilla fa di testa sua». Grazie al suo aiuto e ai suoi insegnamenti ho già realizzato vasi che non sono male, ma non riesco ancora a far parlare l’argilla: devo continuare.
Bisogna lavorare per far parlare l’argilla, bisogna lavorare per vedere un fiore come realmente è, bisogna semplicemente lavorare.
1 – Georgia O’Keeffe, Memorie, a cura di Alessandra Salvini, ABSCONDITA, 2003 Milano.
2 – Devoto Oli, Il dizionario della lingua italiana.
3 – www.etimo.it
4 – Un suo insegnante.