23 Apr Un silenzio particolare
La frase: “A me i sogni non piacciono molto, preferisco credere nelle utopie”.
Immagini in superotto dell’infanzia di Matteo s’intrecciano con quelle della vita ai casali, mentre Stefano racconta al figlio le premure e i pensieri che lui e Clara hanno avuto, ed hanno per lui. Cinema e vita s’incontrano in un’ esperienza straordinaria. (2004-Paneikon)
- “Un silenzio particolare”: come è nata l’idea e come hai selezionato i momenti più significativi, con che criterio?
-L’idea del film è nata un po’ per caso, nel senso che avevamo aperto come fondazione “la Città del sole” (nota: l’agriturismo fondato da Stefano Rulli e dalla mamma di Matteo, la scrittrice Clara Sereni. Si tratta di una struttura turistica del tutto particolare: i gestori ospitano gruppi di persone disabili e non insieme, ospitati per un periodo di vacanza, in un’atmosfera familiare). Come agriturismo volevamo un po’ pubblicizzarlo, volevamo fare una sorta di promozione, intervistando alcuni ospiti che venivano lì, questo è stato il punto di partenza, non ho pensato subito a Matteo, per episodi passati… in passato avevo fatto per lui una piccola cosa, un documentario assieme ad altri autori sulla campagna elettorale del ’94 vinta da Berlusconi, una ripresa breve, di un giorno, dove lui ebbe delle difficoltà: all’inizio si era divertito, poi, quando aveva capito che era un impegno un po’ più grosso si era interrotto, ma realizzammo comunque una cosa molto semplice, piccola. Anni dopo lui ha lavorato in un ristorante ad Assisi, un’esperienza piuttosto bella dove alcuni camerieri, senza operatori, avevano da soli trovato un modo di insegnare loro quella professione, dunque una serie di competenze ma anche la solidarietà e l’intelligenza di stare e vivere accanto ad una persona con problemi in una situazione di lavoro… Quando si era quasi alla fine di quella esperienza e lui doveva andar via, io volevo in qualche modo fissarla, documentarla, far capire e vedere che era possibile il lavoro anche per persone con problemi come Matteo e -non pensando di poterlo fare data l’esperienza precedente – chiamai un amico, un grande documentarista, Daniele Segre con il quale stavo lavorando ad un altro progetto, chiedendogli se era disponibile per 2 o 3 giorni e così nacque l’idea di un documentario: “Sto lavorando” che racconta appunto l’esperienza di Matteo lavorativa. Questo progetto resta per me molto importante, perché fa capire abbastanza bene quelle che sono le possibilità di quella che chiamerei “l’integrazione” piuttosto che “l’inserimento”, nel senso che “l’integrazione” si ha quando c’è un intero ambiente che si fa carico dell’inserimento di una persona che non è vista come un corpo estraneo, una comunità che prende possesso di una parte di sé che forse aveva rifiutato, inconsciamente, forse involontariamente… Ecco, questo ritrovarsi insieme, in un momento in cui ad Assisi c’era stato il terremoto, questi operai che erano in cassa integrazione, stavano perdendo il posto di lavoro e facevano anche loro a rotazione per lavorare, insomma una situazione in cui inserire una persona con problemi poteva sembrare davvero l’ultima cosa…
Invece in queste interviste che poi ha fatto Daniele c’è dentro la loro riflessione sul fatto che proprio la presenza di una persona come Matteo aveva dato loro la sensazione di quella solidarietà che poi è servita a loro stessi per trasformare quella difficoltà, a non mettersi l’uno contro l’altro ma ad affrontarla tutti quanti insieme. Quindi, dopo quella esperienza, non avevo più pensato a fare cose con lui. Tantomeno quando all’agriturismo della Città del Sole abbiamo cominciato a fare queste riprese, assieme a Ugo Adilardi, che è stato il direttore della fotografia, nonché il produttore dell’iniziativa con la Paneikon. Matteo veniva lì ogni tanto con la madre, e una volta, mentre stavo facendo l’intervista, si è messo in mezzo, ha come interrotto la ripresa, ma lo faceva in modo non aggressivo, ho avuto l’impressione che fosse come un segno, qualcosa, e così sembrava anche ad Ugo, che conoscendo bene Matteo, mi ha detto: “…Ma forse Matteo vuol stare dentro al film anche lui” . Abbiamo visto che è ricapitato un’altra volta e abbiamo provato a fare una ripresa con lui, per verificare se questa ipotesi era vera o no… E’ la scena di “Un silenzio particolare” che poi è rimasta, quella della passeggiata nel bosco dove lui prova a tagliare il ramo, lo vuole tagliare poi non vuole tagliare, va avanti e indietro continuamente. Rivedendola, ho avuto la sensazione che questo fosse simbolicamente un po’ il suo stato d’animo: cioè lui ci voleva stare dentro però aveva anche paura di starci …si allontanava ma poi alla fine tornava sempre. E così alla fine abbiamo provato.
Per un periodo ho fatto un po’ di riprese per il film di promozione che avevo in testa prima e un po’ di altre riprese con Matteo. Via via, mi sono reso conto, guardando il materiale, che la parte che riguardava Matteo era quella più intensa e più coinvolgente, io mi sentivo molto preso, anche se mi metteva in difficoltà il fatto di dover stare davanti alla macchina da presa e insieme dietro, con una sorta di doppio ruolo. Così le riprese sono state fatte in vari step, prima il montaggio di un certo numero di ore, poi su questo montaggio ho abbozzato un tipo di struttura narrativa nuova che aveva bisogno di altre scene, allora ho girato le altre scene… ma con Matteo tu pensi di andare a destra e lui regolarmente ti porta a sinistra quindi puoi ipotizzare delle scene solo come previsione tua, non è però ciò che lui farà. Per esempio la scena in cui lui canta è stata girata pensando che lui non avrebbe cantato. Io ipotizzavo di rappresentare un suo rifiuto, invece quella sera ha cantato tutta la sera! Un’altra volta invece volevo fargli vedere un film ma lui non voleva assolutamente vederlo. La cosa bella di Matteo è che Matteo non ti dà mai quello che ti aspetti lì per lì, ma il senso di quello che ti vuole comunicare poi alla fine te lo dà lo stesso. Via via che io raccoglievo materiale e lo inserivo, quella struttura narrativa cambiava. Sono arrivato ad un certo punto che ho raccolto –credo- una cinquantina di ore di materiale girato, e alla fine ho dovuto scegliere di sacrificare ciò che raccontava qualcosa di più oggettivo nella vita dell’agriturismo e mettere Matteo al centro, la sua relazione con me e con la madre… C’è stata dapprima l’ipotesi di fare 3 puntate di 50 minuti l’una per la televisione ma alla fine mi è sembrato che la forma giusta fosse quel film lì che avete visto, con quella sua strana durata: un’ora e quindici, che non corrisponde a nessun canone televisivo né cinematografico ma insomma, quella era la durata giusta per la mia storia.
- Dichiara Ugo Adilardi, direttore della fotografia: “la possibilità di un miglior risultato tecnico avrebbe quasi certamente eretto tra noi e i ragazzi una barriera che non poteva e non doveva esserci“. E il risultato non è quello di realizzare inquadrature impeccabili, ma inquadrature vere, quasi a sottolineare il carattere domestico della produzione. Quale è stato il rapporto tra i ragazzi e la cinepresa?
Il rapporto con la macchina da presa dipende dalla percezione della macchina da presa che hanno loro, che non è sempre identica…. Devi sapere quale è la loro percezione di quell’“oggetto misterioso”. Per molti di loro era come una sedia, un soprammobile, in altri -come i ragazzi di Ciampetto- invece c’era una consapevolezza maggiore, quindi l’intervista diventava un elemento molto importante: c’è bisogno di conquistare la loro fiducia proprio perché il rapporto con la macchina da presa è consapevole. Nel caso di Matteo è stato abbastanza strano, lui sentiva la macchina da presa perché l’ho sempre messa a vista, non era mai nascosta, lui sapeva che c’era questa cosa, che c’era Ugo che faceva questa cosa strana di lavorare dietro la macchina come se facesse una fotografia, ma il problema era che lui non riusciva a capire, a fare l’astrazione da quella cosa lì, a capire che dal venire ripresi ci fosse poi un qualcosa che finiva su uno schermo, cioè quel passaggio è un passaggio molto complesso, capire che una ripresa poi diventerà un film… Ecco, quella percezione Matteo non l’aveva, quindi non aveva la percezione che gli fosse rubata qualcosa, un po’ come dicono gli indiani che non vogliono essere fotografati perché altrimenti rubano loro l’anima. Per alcuni di loro era invece proprio come per quegli indiani. E allora, quando avvertivi questo loro timore che gli stessi rubando una parte dell’anima, allora lì ti dovevi fermare. In definitiva la presenza della macchina da presa è stata sempre la stessa, ma quello che cambiava era la percezione che ne avevano gli intervistati. In alcuni casi c’è anche una sorta di violenza di Matteo verso la macchina, quando lui la sentiva come una presenza estranea, cioè nei momenti per lui più difficili. Così la scelta che abbiamo fatto prima delle riprese con Adilardi, è stata di metodo: dato che c’erano delle situazioni in cui io ero in campo, dunque non potevo dirigere, ero più “attore” che regista, l’indicazione di fondo che ci eravamo dati tra di noi era quella che dove c’era una situazione particolarmente drammatica non si dovesse zoomare mai, non andare addosso alla persona. Non doveva insomma essere la macchina da presa a cercare la drammaticità. Certo, se la persona filmata ti viene addosso la filmi, la racconti, perché è una sua scelta. Ma il movimento soggettivo di una macchina da presa che va a stringere su una persona è una scelta che Godard avrebbe detto “etica” (lui mi pare dicesse che “un carrello è un gesto morale”). E, tendenzialmente, nelle situazioni più difficili, è preferibile che la macchina resti ferma, segua l’azione senza “perseguitare” la persona. L’altra scelta importante è stata quella di non montare “in macchina” come si dice in gergo. In genere quando tu giri e non c’è abbastanza pellicola ti dici “beh di questa già ce n’ho abbastanza, perciò m’interrompo, poi faccio ripartire la scena più avanti e lì faccio uno stacco…” . Ecco, nelle scene particolarmente delicate da un punto di vista, come dire, psichico, sentimentale, umano, abbiamo fatto la scelta di un unico piano sequenza, cioè di non tagliare mai, perché quella era la garanzia per il pubblico che “non c’era il trucco”. Spesso nel cinema puoi dare la drammaticità montando un primo piano con un altro primo piano o un totale. Un piano sequenza è diverso: per esempio nella scena di notte, quando Matteo sta male dopo che sente cantare la madre assieme agli amici e va via, siamo in stanza io e lui, lì c’è tutta una lunga sequenza di lui che non ce la fa a reggere quella solitudine, il senso di colpa per aver colpito la madre… Ecco, lì attraverso dei lunghi piani-sequenza c’è il racconto di come si entra e si esce da una crisi, con dei tempi “reali” che sono diversi da quelli hollywoodiani, con una causalità che non è quella inventata dallo sceneggiatore. Quando scrivo una scena, la scrivo in un certo modo, e se a un certo momento devo raccontare una crisi, costruisco un nesso di causalità che è inevitabilmente intenzionale. Invece nel piano sequenza che racconta la durata reale di una crisi c’è il suo “mistero” più autentico. Se quel racconto doveva avere un senso anche all’esterno, per gli altri, per il pubblico, l’importante era riuscire a far “sentire” come si entra e come si esce da quei momenti così bui, così difficili, rispettandone tempi, durate, sospensioni. Ecco, in quei momenti, anche se io non potevo intervenire, Ugo Adilardi ha girato esattamente come avrei voluto che fosse girata quella scena: con quel rispetto dell’altro, con quella sensibilità, con quell’attenzione, con quella mano ferma che serviva e che era difficile avere. Detto questo ho lasciato anche qualche voluta “sgrammaticatura” della macchina da presa, tipo un brusco movimento se quell’errore raccontava l’emozione di chi vi si trovava dietro…
- Se hai voglia di parlarne torniamo alla difficoltà del tuo molteplice ruolo: autore, regista e padre…
La principale difficoltà emotiva è stata soprattutto nel montaggio più che nelle riprese, perché mentre agivo semplicemente ero lì, agivo, reagivo… E’ rivedendoti dopo che scopri qualcosa di imprevedibile. In questo la macchina da presa è inesorabile. Tu puoi pensare e dire quello che vuoi di te ma poi c’è l’immagine di te colta dalla telecamera o dalla macchina da presa. A volte rivedendomi, mi sono visto come un personaggio, un personaggio che non conoscevo, nel senso che ho visto delle reazioni, degli imbarazzi, dei disagi, delle rabbie che razionalmente io mi nego di avere. Insomma quell’immagine mi ha restituito qualcosa di me che non sapevo e quindi per me il montaggio è stato un momento conoscitivo. Io in quei mesi stavo scrivendo un film per Gianni Amelio con Sandro Petraglia che si chiama “Le chiavi di casa” (nota: il film racconta il complesso reincontro tra un padre e un figlio con problemi psichici). Quindi ho, come dire, lavorato parallelamente ai due film con due ottiche diverse, ovvero quando dovevo scrivere il film come sceneggiatore mi ricordavo delle cose che avevo conosciuto in prima persona o sentito raccontare e le proponevo agli altri come una sorta di “deduzione” a partire da un’esperienza vissuta. Invece lavorando a “Un silenzio particolare” il processo è stato esattamente l’opposto, come dire “induttivo”. Durante le riprese io ho vissuto per la prima volta quelle situazioni con Matteo e le nostre reazioni si sono fatte immagini un po’ a mia insaputa. E quando le rivedevo non mi erano già note come la pagina di una sceneggiatura che avevo scritto. La pagina che scrivo la controllo, so cosa ho messo lì dentro, invece in “Un silenzio particolare” l’ immagine di me rappresentata è diversa da quella che io pensavo di essere. In questo senso posso dire che il montaggio è stato per me un momento conoscitivo della mia relazione con Matteo: ad esempio dalle immagini emerge con forza tutta una sorta di “aggressività tranquilla” nei suoi confronti, cioè l’ambivalenza del mio volerlo aiutare che è anche un modo per rassicurare me stesso. C’è una scena abbastanza importante in tal senso, proprio da un punto di vista conoscitivo: quella della festa. Matteo recita una poesia agli sposi mentre dà loro il regalo, poi la festa va avanti e io vado da lui e gli dico “Balliamo adesso?” e lui mi dà un calcio. Io allora gli chiedo “Perché hai fatto questo, in fondo che ti ho chiesto?Ti ho chiesto solo di ballare!”. E invece, rivedendo il montato, la cosa che mi colpiva era che dietro alla frase in cui gli chiedevo di ballare, io gli stavo chiedendo un’altra cosa: di essere “normale”. Cioè non mi era bastato il suo recitare una poesia. Matteo non l’aveva mai fatta una cosa del genere, recitare dei versi è stato uno sforzo terribile: ma quell’imprevista apertura invece di darmi serenità, mi ha fatto scattare dentro un meccanismo aggressivo, a quel punto volevo che fosse come gli altri, che ballasse come gli altri… Con quei pochi versi recitati da Matteo, era successo qualcosa di nuovo, che non era la conquista della cosiddetta “normalità”, ma comunque era un cambiamento, una trasformazione positiva. Ebbene l’emozione di un cambiamento pur positivo ti rende più consapevole di quello che ti manca, della diversità, e per un attimo desideri che tutto cambi “come per una magia”… Rivedendo quell’immagine per me, ho capito che, per quanto uno pensa di aver affrontato una serie di problemi, di averci ragionato su, poi te li ritrovi lo stesso davanti, o meglio dentro. E allora mi è venuto di riflettere che la mia relazione con Matteo non potrà che essere sempre in fieri, che è assurdo fantasticare di una mitica “ora X” in cui diventerà normale Perché quello che importa è che ognuno sia soddisfatto della sua vita, per quello che ognuno di noi può essere.
- Nel film racconti che l’obiettore che lo ha tenuto accanto vi ha dato la sensazione di essere con lui “normale”: per due genitori è molto più difficile?
Persone che vedono Matteo con me e con la madre e poi con persone attinenti ad altri ambiti, come le sue amicizie o il lavoro, lo vedono capace di una ricchezza di rapporti dove non ha la dipendenza o la conflittualità che ha con noi. Questi sono rapporti complessi da vivere, proprio perché se è giusto che un figlio debba sapersi separare dai genitori e i genitori da un figlio, quando c’è una condizione di diversità, quella sorta di dipendenza è legata anche ad altre cose difficili da eliminare, come ad esempio la dipendenza economica, e dunque è più “ambivalente” e difficile da affrontare.
- Quando nel film gli dicevi: “ce la puoi fare” a cosa pensavi esattamente?
“Ce la puoi fare” a cambiare. Uno dei nodi di Matteo è il ricorrere continuamente -soprattutto in passato- a degli stereotipi. Se andava bene una cosa doveva sempre e assolutamente rifarla il giorno dopo: era come una conferma, l’unico modo per essere certo che “il mondo non scappasse”. Il cambiamento gli dava una grande insicurezza: chiedere di fare una cosa mai fatta, andare in un posto dove non era mai stato, è sempre stato una cosa molto difficile, molto angosciosa per lui. Insomma, con quella frase, volevo dargli questa sensazione che lui ce la può fare a cambiare, a stare tra gli altri, a vivere una vita autonoma da me.
- Il film comincia con Matteo che si rivede in video da bambino: quale è stata la sua esperienza del film, quale è stato il suo rapporto con la telecamera e che esiti ha avuto per Matteo “rivedersi” alla fine del film?
Dopo che l’ho girato e montato c’era il problema se farlo o no vedere, sembra un assurdo per un film, prima farlo e poi decidere che farne… Ma era costato pochissimo, eravamo io e l’operatore, gli ambienti utilizzati erano i casali della fondazione, per cui all’inizio l’esperienza era fatta per raccogliere del materiale e vedere poi cosa succedeva… Ma era importante capire anche come avrebbe vissuto Matteo l’idea di una diffusione del film all’esterno. Così, quando abbiamo fatto un primo montaggio ho deciso di farglielo vedere a casa su di un televisore, insieme con la madre. E’ da tener conto che io non sono mai stato al cinema con Matteo, lui al buio, in sala, si mette a parlare con me, con gli altri va regolarmente ma con me mai. Anche davanti alla tv vede un pezzo poi si alza e se ne va. Beh, quella volta ha visto tutto il film rimanendo seduto. Poi alla fine mi ha detto: “Voglio rivedere Matteo che piange!”: cioè la scena del letto, di notte, quando sta male. L’ha rivista, con l’intensità di chi vede per la prima volta qualcosa di sé che non si era mai detto, che non aveva mai visto: cioè per la prima volta Matteo ha visto una sua crisi, altra cosa da ricordarla o farsela raccontare. Di solito quando le crisi passano, Matteo non se ne parla più, e anch’io non è che sto lì a dire “ma che hai avuto, cosa è successo?…”. E invece quella volta, l’ha “vista”. Io non so cosa ha provato, però so che l’ha voluta rivedere di nuovo. E allora alla fine gli ho chiesto se voleva che lo facessimo vedere anche ad altri e lui ha detto di sì. Quando il film è stato presentato a Venezia, c’era anche lui. Credo che un elemento importante di questa esperienza per me e Matteo è che le immagini di “Un silenzio particolare” sono diventate un tramite tra di noi. Il fatto di aver filmato quel nodo centrale della sua crisi e avergli detto non solo “vedilo, lo puoi vedere” ma anche “lo possiamo mostrare agli altri”, è stato qualcosa di rassicurante per lui. Rispetto al “senso di vergogna” capita a volte, almeno a me capita, al di là di tutte le buone intenzioni e convinzioni, di provare un sentimento di imbarazzo, di vergogna quando c’è una difficoltà all’esterno, quando devi mostrare anche agli altri problemi che solo tu conosci. Ecco, quell’imbarazzo probabilmente arriva ai ragazzi come Matteo. Matteo, lo dico abbastanza per certo, avverte la cosa come un problema che io ho verso di lui, un problema di accettazione. Essere accettato non significa soltanto che io ti accetto per me dentro casa, ma che ti accetto per me davanti a tutti, ovunque. E quindi rivedersi sullo schermo e mostrarsi a tutti i pubblici possibili, è stato anche un modo per dire a lui e a me stesso che ci si può mostrare così, fragili e con difficoltà, e che la gente non scappa via. A Venezia anzi la gente ha dimostrato un grande affetto per Matteo, dopo la proiezione del film. Venivano però in maniera delicata, affettuosa, non invadente ad avvicinarlo e ciò credo gli abbia dato la percezione che si possa vivere questa diversità non con vergogna, ma come una cosa che gli altri possono accettare.
- Dunque credi che il ri-vedersi possa essere considerato terapeutico? …La forma narrativa auto e biografica può essere considerata come una forma di cura di sé, nei termini di recupero della memoria e traccia del proprio esistere?
Credo di sì, nei termini in cui è una cosa di cui si può parlare e si può guardare …Quando io dico “imbarazzo”, dico qualche cosa di molto confuso, non trovo la parola precisa … Per esempio sembra razzista ma io posso dirlo perché sono un padre: i genitori come me a volte provano vergogna per i figli diversi. Ma non è vergogna per loro, è più vergogna per se stessi, perché hai fatto qualcosa di sbagliato tu, fisiologicamente, biologicamente, sei tu che senti che non hai fatto bene. E quel sentimento va al di là della tua testa, anche se tu razionalmente sai che non è così. Però quel sentimento è qualcosa che arriva ai giovani come Matteo, perché se c’è una dote che hanno queste persone è quella di una grande sensibilità, capiscono quello che gli stai dicendo non attraverso le parole, ma attraverso i gesti, lo sguardo, il timbro della voce… Ecco, ci sono dei gesti che sono per loro più significativi di quanto noi pensiamo siano le nostre parole. Certe volte pensiamo che dire certe frasi sia rassicurante ma se la voce è sbagliata, se il sentimento che c’è dietro è sbagliato, loro lo avvertono. Quando dico “loro” faccio un’astrazione, che è legata soprattutto alla conoscenza personale che ho di Matteo, ma anche dei ragazzi che ho conosciuto durante la mia vita nelle associazioni e nella fondazione.
Penso dunque che il rivedersi può avere una qualche valenza terapeutica, se è usato come un linguaggio dentro la relazione. Ma non tutte le relazioni sono uguali. Non c’è dunque un modo giusto per raccontare la “diversità” con il cinema. No, perché, a seconda delle persone, quel mezzo lì può diventare uno strumento di comunicazione o invece di rifiuto, di respingimento. La responsabilità di usare la macchina da presa non è legata al mezzo, alle tue idee cinematografiche ma alla percezione che tu hai della persona che vuoi intervistare, incontrare. In “Un silenzio particolare” ad esempio una delle cose che a me personalmente emoziona di più, è un’intervista piccola piccola con un ragazzo down che quasi non parla, anzi che parla quasi solo con la testa e fa dei segni. “Come stai qua?” gli si chiede e lui risponde solo: “bene “… “hai amici?” “sì…”. Dice pochissime parole, ma con una tale intensità! Lui ha quella parola sola… “la parola-senso”, “la parola-mondo”. E quell’intensità di racconto ce la senti dentro, quella parola è altra da quella che diciamo noi, quindi anche chiedergli di spiegarsi di più sarebbe sbagliato perché si è spiegato già tantissimo. In conclusione, anche le interviste, la relazione cinematografica, l’approccio umano, dipendono molto da come sono le persone che devi filmare.
- Dai “Matti da slegare” alla “Meglio Gioventù” ti sei occupato con passione del tema del disagio mentale: ti sembra che nell’Italia di oggi il cinema possa ancora aiutare una comprensione più sensibile, più profonda del tema o che sia diventato più difficile?
Io penso che l’esperienza di “Matti da slegare” è un’ esperienza che aveva un senso soprattutto politico: si doveva dire che la malattia mentale ha anche delle connotazioni legate all’emarginazione sociale, nell’OP di Parma le persone ricoverate per il 70% “non erano nemmeno matti”. Oggi è diverso: noi possiamo e dobbiamo affrontare “il mistero della follia”. “La follia” è un termine che la gente non ama, troppo poetico e letterario! Ma io penso che c’è un mistero che in tanti anni di ricerche scientifiche nessuno è riuscito a svelare. Noi descriviamo soltanto comportamenti, non abbiamo diagnosi chiare. Se uno ha una malattia al polmone ne conosci bene l’aspetto clinico, le cause… ma spesso nella malattia mentale parliamo solo di comportamenti. E’ importante raccontare la follia all’esterno,a un pubblico che sa poco e niente, ma anche all’interno della relazione terapeutica può avere una sua utilità, se la persona che si rivede non considera quelle immagini uno specchio non deformante. Perché il cinema è uno specchio che, se usato bene, ti aiuta a capire qualcosa che non hai visto di te. Sì, penso possa essere un elemento conoscitivo importante. Mi viene in mente che Matteo -che non sa leggere né scrivere- è molto colpito e affascinato dalle immagini, così io in passato gli registravo una serie di film, di programmi che gli piacevano e ho ora una serie di materiali accumulati negli anni. E lui, di tanto in tanto vuole rivederli, è interessato non al racconto ma a delle immagini precise, delle sequenze anche apparentemente poco significative, come una balena che sprofonda dentro il mare o due elefanti che fanno la guerra tra loro… Più che il racconto cerca delle immagini per lui significative, che lo colpiscono emotivamente. Allora credo che queste immagini possono raccontarmi qualcosa di lui, perché un’immagine ti arriva anche se non sai né parlare né disegnare. Ecco, io penso che questo rapporto tra soggetti con problemi mentali e il cinema sia un pianeta ancora poco esplorato ma di grande interesse. Perché forse nella interazione della visione di un immagine c’è qualcosa di misteriosamente significativo, di profondo e universale, penso anche agli archetipi di Jung….Sarebbe affascinante che chi ha competenze terapeutiche e chi ha competenze più tecniche e artistiche possano riflettere insieme su questo, scambiarsi conoscenze, e inventare un modo nuovo di utilizzare l’immagine cinematografica.
Stefano Rulli, sceneggiatore e regista
Roberta Calandra Sceneggiatrice e Counselor