
13 Nov La voce e la musicoterapia
Il Canto degli Armonici
di Alberto Ezzu
Da parecchi anni pratico la musicoterapia e sono cantante/insegnante di canto difonico – tecnica vocale, questa, più conosciuta con la dicitura di canto armonico.
L’invito rivoltomi dalla rivista di illustrare con quale modalità si sia sviluppata la relazione tra queste due competenze e la loro reciproca influenza, si è rivelato per me molto interessante e stimolante.
Quelli che seguiranno saranno soprattutto dei “pensieri ad alta voce” che, nel doversi necessariamente adattare alla forma scritta, spero riescano a risultare chiari ed interessanti per i lettori e che riusciranno a tornarmi utili per definire una forma di intervento – sia nel campo della musicoterapia sia in quello del canto difonico – più consapevole e proficua, per me, per i miei pazienti e per gli allievi.
Inizierò con lo spiegare brevemente la tecnica del canto difonico ed i presupposti base della musicoterapia nel Modello Benenzon.
CANTO DIFONICO
Varie tecniche vocali di derivazione tibetana, mongola e siberiana (ma presenti anche in altre aree geografiche, come il Sud Africa, ad esempio e, in qualche modo, la meno esotica e ben più familiare Sardegna) permettono ad un cantante di emettere, in un solo respiro e utilizzando soltanto la propria voce, più suoni contemporaneamente.
Una qualsiasi manifestazione sonora – sia essa rumore, voce, suono musicale o altro – benché da noi possa essere percepita come un evento “singolo”, in realtà nella sua natura è sempre complessa, in quanto formata da un tono principale (fondamentale o formante) e da una serie di altri toni più acuti e di varie intensità che vibrano simultaneamente (armonici, o ipertoni).
Avviando una pratica che permetta di riconoscere, selezionare e cantare questi armonici si può dare vita – ed usando soltanto la propria voce! – ad una personalissima e suggestiva polifonia.
MUSICOTERAPIA NEL MODELLO BENENZON
Nel IX Congresso Mondiale di Musicoterapia svoltosi a Washington nel 1999 vennero riconosciuti cinque modelli che, per il loro impianto scientifico ed i risultati ottenuti, poterono fregiarsi del riconoscimento ufficiale. Di questi, alcuni utilizzano tecniche di musicoterapia attiva ed altri di musicoterapia recettiva. Per recettivo si intende un modello che persegue i propri fini terapeutici facendo ascoltare al paziente della musica o dei suoni, mentre per attivo si intende un modello che reputi dover far produrre musica o cantare direttamente il paziente. Il Modello Benenzon che io seguo fa parte di quest’ultimo filone, attivo, e poggia su un impianto teorico di impronta psicodinamica.
All’interno di un setting, paziente e terapista si incontrano per dar luogo ad una seduta in cui si andrà a lavorare con le risorse non verbali e nella quale, come mezzi per instaurare la relazione, si potranno usare corpo, voce, strumenti musicali od altri oggetti. Il setting è un luogo circoscritto in cui il terapeuta permette al paziente di esprimersi liberamente senza intervenire verbalmente giudicando o guidando la sua espressione. Il presupposto base è che l’inconscio sia un’energia e che questa, mettendosi in moto, produca tensione e, pertanto, emozione. Questa tensione, passando dall’inconscio al pre-conscio, provoca la distensione. In questa fase troviamo energie che appartengono al vincolo e alla relazione sociale. Benenzon parla dell’Iso (Identità SOnora) come di un accumulo di energie con caratteristiche dinamiche legate ad un’espressione corporo-sonoro-musicale. Lo distingue in Iso Universale – un’energia comune a tutti gli uomini, con caratteristiche indistinguibili per razza, sesso, cultura – e, man mano che le energie escono da noi stessi e raggiungono gli altri e il mondo che ci circonda, identifica come Iso Gestaltico, Iso Culturale, Iso in Interazione, Iso Ambientale etc. Il Principio dell’Iso presuppone che per aprire canali di comunicazione tra paziente e musicoterapista sia necessario che questi riconosca gli Iso del paziente e li metta in equilibrio con i propri.
Attraverso gli oggetti intermediari, la diade paziente-terapeuta instaura una relazione in cui risulterà importante l’esperienza che il proprio io-corpo-mente farà di se stesso immerso in una situazione svincolata dal quotidiano che andrà ad imprimere una sorta di marchio indelebile in grado di contrassegnare e modificare la percezione di sé, delle proprie caratteristiche e limiti.
INCONTRI? SEDUTE?
L’insegnamento del canto difonico, dopo vari tentativi suggeriti dall’esperienza, dal luogo e dal tipo di persone incontrate, si è instradato in linea di massima o verso seminari di due giorni o verso incontri a cadenza settimanale della durata di circa un’ora.
Negli ultimi due anni è iniziato a verificarsi un fatto singolare: le persone che mi contattavano in qualità di insegnante di canto armonico, durante le prime lezioni o addirittura nella fase precedente (negli incontri di introduzione o in quelli finalizzati al contratto) mi confidavano i loro problemi, più o meno gravi, sovente legati alla percezione o al riconoscimento di se stessi e della propria emotività, oppure a vere e proprie difficoltà fisiologiche o relazionali. Alcune richiedevano dal mio intervento una soluzione a domande specifiche quali, ad esempio: “Non riesco mai ad urlare, neppure nel pericolo”; “Quando respiro profondamente sento dolore al petto”; “Non riesco a respirare profondamente”; “Sento che la mia voce non mi appartiene”; “Quando cammino la respirazione diventa molto corta”; “Quando sono agitato, la mia respirazione cambia mettendomi a disagio”; “Sono stonato…”. Molte di loro, prima di contattarmi, avevano già iniziato altri percorsi: psicanalisi, psicomotricità, arteterapia, costellazioni familiari, counseling, terapie farmacologiche, meditazione – di impostazione induista, buddhista, cristiana o new-age.
All’inizio cercavo di inviarle verso professionisti specifici (psichiatri, psicologi, foniatri, otorinolaringoiatri, audiologi, musicoterapeuti, medici generici) ma con l’andare del tempo ho constatato che molte di loro, in ogni caso, utilizzavano le sedute di canto difonico per trovare una soluzione ai propri problemi, al di là della mia persona, di quanto avessi potuto dire loro e delle mie competenze. Colpito da questo fatto, mi sono interrogato su cosa, in generale, le potesse spingere in tale direzione e quali caratteristiche potessero avere in sé il canto difonico e il training che proponevo ai miei allievi, da renderlo così adatto a questo fenomeno:
– potevano essere influenzate dal fatto che fossi contemporaneamente un musicoterapista?
– il canto difonico così come si è sviluppato in Occidente è spesso molto legato alla meditazione o al campo spirituale: c’è un nesso?
– molte persone, oggi, quando hanno un problema, una difficoltà, prima di contattare un medico preferiscono percorsi “alternativi”: per sfiducia nella medicina o per altri motivi?
– è possibile che le emozioni stimolate dal canto difonico inducano in sé ad una ricerca e/o presuppongano un’idea di cura?
Qualunque fosse la risposta – se mai ce n’era una –, mi ritrovavo a lavorare in un’area diversa, in cui non ero soltanto più, e semplicemente, un insegnante ma non ero neppure più un musicoterapista; non potevo usare coscientemente le tecniche musicoterapiche acquisite negli anni di apprendistato scolastico sebbene queste competenze, legate al riconoscimento della propria identità sonora e alla comunicazione non-verbale, mi supportassero notevolmente nel condurre questa sorta di lezione/seduta e mi aiutassero a ritagliarmi un ruolo di conduttore/contenitore. A loro volta, gli allievi/pazienti sembravano gradire questa conduzione, al punto che alcuni gruppi hanno continuato il loro percorso per più cicli ed alcune persone hanno preferito un percorso singolo, in alternativa o contemporaneamente a quello di gruppo.
INCONTRI DI CANTO, CANTO DIFONICO E MOVIMENTO
Poco alla volta in questi incontri, di gruppo o singoli, ho apportato delle variazioni, spostando progressivamente l’attenzione dal canto degli armonici ad un canto più generalizzato, spontaneo, e ho anche iniziato a dare indicazione affinché le persone potessero muoversi camminando, correndo, saltando, sdraiandosi a terra e compiendo qualsiasi altro movimento desiderassero effettuare – sino ad ora gli incontri si erano svolti prevalentemente da seduti.
Di seguito riporto una tabella in cui evidenzio alcune fasi ricorrenti – non necessariamente in ordine cronologico – degli incontri:
– Silenzio e analisi generalizzata dello stato del proprio corpo e della propria respirazione;
– Respirazione dal naso portata in profondità e visualizzata come “acqua”;
– Far cantare il “fiato”;
– Ricerca della nota più grave e salita progressiva, respiro dopo respiro, alla nota più acuta;
– Portare attraverso il corpo, come una sorta di pellegrinaggio la visualizzazione del proprio canto immaginato come vibrazione che si trasforma in fiammella, calda, luninosa e sonora;
– Canto libero concentrandosi su un “organo” o una parte del proprio corpo;
– Canto delle vocali;
– Canto di una vocale “immaginando” di spostarsi a cantarne un’altra, da U a O, a E o a I (cercando, insomma, di impostare tutte le parti del corpo coinvolte nella fonazione come se stessero cantando questa nuova vocale, ma rimanendo sulla vocale scelta all’inizio);
– Canto di un solo suono facendo attenzione a riconoscere dove si avverte la vibrazione;
– Canto di un solo suono immaginando di far muovere nel corpo la vibrazione;
– Canto libero in movimento;
– Canto libero facendo derivare il suono dal movimento;
– Canto libero portando il suono a trasformarsi in movimento;
– Canto libero usando glissati dal grave all’acuto e viceversa, facendo riferimento alle categorie di “basso “ e “alto”, “dentro” e “allargamento” (dal “dentro” al “fuori”).
Durante gli incontri solitamente propongo tre fasi in cui:
– – si lavora esclusivamente su se stessi (proprie sensazioni)
– – si lavora sugli altri (rivolgere verso gli altri le proprie sensazioni)
– – si lavora assieme agli altri (interazione)
Ho notato come trovarsi all’interno di un gruppo di questo tipo, nel quale ci si esprime con voce, corpo, movimento, potendo fare esperienza di sensazioni ed emozioni che scaturiscono naturalmente dal nostro interno e che spesso reprimiamo perché ci disturbano, ci mettono a disagio in quanto non le sentiamo “nostre”, oppure perché non socialmente accettate, ebbene ho notato come tutto questo abbia creato un piacevole senso di unità, in se stessi e tra tutti i presenti. Si è venuto a delineare uno stato emozionale comune e un senso di fiducia tra i partecipanti, anche nel momento in cui si è lasciata emergere una naturale seppur indotta scoordinazione vocale e motoria che ha stimolato e indotto una piacevole regressione.
Il canto di gruppo sembra creare un piacevole senso di unità, piuttosto che semplicemente rifletterlo e promuovere e favorire la creazione di legami sociali. Questo sembra riportare alla stessa sensazione di piacere e appagamento indotta dal grooming fisico. Per grooming si intende la cerimonia di mutua pulizia e spulciamento con la quale i primati non umani stabilivano relazioni sociali con i membri del proprio gruppo. L’archeologo Steven Mithen ipotizza che, all’ampliarsi numerico di tali gruppi, si sviluppò una sorta di grooming vocale, una “dimostrazione di mutuo interesse e di reciproco vincolo condivisibile simultaneamente con più di un individuo”. Se può essere corretto ipotizzare che tale forma cerimoniale sia stata presente anche nelle antiche comunità umane pre linguistiche, potrebbe essere interessante catalogare tale grooming tra gli antenati del linguaggio. In ogni caso, quello che accade nei miei incontri durante la fase di lavoro “sugli altri”, fase in cui tutti gli stimoli che propongo al singolo partecipante vengono indirizzati ai componenti del gruppo, sembrerebbe confermare tale tesi, in quanto questi momenti vengono vissuti come intensamente comunicativi, vicini ad una forma di laica comunione di spiriti. Questa pratica di cantare insieme sembrerebbe suscitare sentimenti di appagamento e piacere. I gruppi si sono trovati coesi anche quando qualcuno ha espresso rabbia e disagio con vocalizzazioni tese e violente. Nelle successive spontanee verbalizzazioni è emerso come, dopo un primo momento di stupore o rifiuto, nel gruppo sia scattata la tendenza a contenere, proponendo un canto dalle stesse caratteristiche sonore (in forma omeopatica) o contrapponendo a questa manifestazione un canto dalle caratteristiche opposte, dolce e pacato (forma allopatica). Secondo William Benzon le persone, sincronizzando suoni e movimenti, entrano in stati emozionali simili e quindi armonizzano l’un l’altro i propri stati nervosi.
Tenendo conto che la maggior parte dei partecipanti aveva precedentemente partecipato a incontri sul canto difonico ho notato che molti sono stati in grado di ravvisare nel canto, in generale, talune qualità dimenticate della voce. Alcuni di loro hanno verbalizzato queste qualità come apparentate al corpo e al movimento ma anche a qualità mentali e psicologiche.
Durante questi incontri ho utilizzato anche tecniche di rilassamento, di respirazione profonda e di visualizzazione mutuate in gran parte dalle mie precedenti esperienze nel campo della meditazione buddhista. Quest’ultima esperienza, del resto, mi è tornata molto utile proprio con quelle persone che arrivavano da me dopo o contemporaneamente ad approcci meditativi immersi in una prospettiva a grandi linee ispirata o contenuta nel mondo che gravita intorno a quello spirituale.
IL CANTO DIFONICO NELLE SEDUTE DI MUSICOTERAPIA
Nel campo della musicoterapia ho lavorato e lavoro con alzheimer, patologie psichiatriche e coma ed anche con quella fascia di persone normodotate – ma talvolta ugualmente bisognose di cure – con le quali questo tipo di intervento può essere inteso in un’ottica di prevenzione primaria.
Uso raramente il canto difonico nelle sedute di musicoterapia. Sinora mi è capitato soltanto con pazienti in coma. Ho sempre pensato che questa tecnica sia da considerarsi alla stregua di uno strumento che il terapista può portare con sé – se è “sua”, se la possiede come risorsa personale – esattamente come può possedere e portare con sé in seduta un tamburello o una cetra e che debba decidere, con molto discernimento, se e quando usarla. C’è il rischio che la perizia vocale necessaria per la sua utilizzazione inibisca la relazione invece di stimolarla. Al contrario, penso sia tutt’altra cosa quando si lavora con persone con livelli di coscienza ridotti o dei quali si ipotizzi che non siano in grado di ravvisare in tale canto una forma di virtuosismo. In questo caso, penso che il canto difonico possa manifestare una sonorità dal forte potere emozionale ma soprattutto, e più semplicemente, una modalità con la quale il musicoterapeuta si presenta al paziente, perché questa gli appartiene, lo identifica e lo fa riconoscere.
In questi ultimi anni mi sono accostato ad alcune teorie, oltre a quelle già studiate e approfondite nel modello benezoniano, che hanno stimolato in me alcune riflessioni, in special modo per quanto riguarda l’intervento musicoterapico con soggetti in coma o in stati vegetativi persistenti. Di seguito un breve elenco:
– Sandra Trehub notò l’esistenza di un grado sorprendente di uniformità transculturale nelle melodie, nei ritmi e nei tempi delle ninnananne ed ebbe modo di notare come bambini di sei mesi in condizioni di tranquillità psicologica, reagivano maggiormente (prova della produzione salivare) alle espressioni vocali della madre piuttosto che a quelle verbali; segno questo che sembrerebbe avvalorare l’importanza del canto come strumento di sostegno emozionale. Le conseguenze positive del canto, continua la Trehub, sia che riducano il pianto o inducano al sonno o a uno stato d’animo favorevole, contribuiscono al benessere del bambino incoraggiando allo stesso tempo il comportamento materno.
– La teoria chiamata del “costruttivismo neurale” secondo cui la crescita di dendriti, assoni e sinapsi nel cervello, si verificherebbe in risposta agli stimoli ambientali.
– La teoria dei “neuroni specchio”, secondo cui gli stessi neuroni che si attiverebbero compiendo una certa azione, si attivano guardando o percependo con altri sensi lo svolgersi della stessa azione da parte di un altro individuo. In base a questa prospettiva, i neuroni specchio rappresenterebbero l’anello tra emittente e destinatario, prerequisito necessario per qualunque tipo di comunicazione.
– La conquista della posizione eretta da parte dell’essere umano ha portato progressivamente alla riduzione delle dimensioni del bacino della donna, con la conseguenza di una diminuzione delle dimensioni e del peso del bambino alla nascita (pertanto, anche cerebrali), il che ha portato i piccoli degli esseri umani a dover crescere molto velocemente nel primo anno di vita fuori dall’utero, diventando perciò questa attività di crescita e cura dispendiosa e di durata relativamente lunga. La vulnerabilità e la necessità di attenzione da parte del neonato, ha creato la necessità della nascita dell’IDS (Instant Direct Speech), ovvero vocalizzazioni, suoni e gesti ripetuti e ripetibili, dalle tonalità elevate e ritmi relativamente lenti, abbinate ad espressioni facciali, sorrisi, solletico e coccole. La madre, dovendo lavorare per procurarsi il cibo, aveva la necessità di “mettere giù il bambino” mantenendo con lui (e lui con lei) un contatto visivo e sonoro sostitutivo del contatto fisico.
Tutte le teorie qui riportate aggiunte, come dicevo, a quelle più specifiche di Benenzon riguardanti la musicoterapia, mi hanno stimolato profondamente.
Uno dei pensieri, come dicevo all’inizio, “ad alta voce” che mi sono sorti spontanei riguarda un possibile paragone tra il paziente in coma o in stato vegetativo e il bambino che viene “messo giù”. Come questo, il paziente in coma ha la necessità di mantenere un contatto con la vita attiva, rappresentata dalle persone con le quali relazionava prima dell’incidente o, più in generale, con ogni rappresentazione del mondo circostante, dal quale sembra essersi estraniato. Per questo motivo credo che – come ipotizza e consiglia lo stesso Benenzon – nella relazione con pazienti di questo tipo, sia importante mantenere un contatto fisico (soprattutto le mani del terapeuta su quelle del paziente o sul plesso solare) ma anche, e soprattutto, un contatto vocale per mezzo di una vocalizzazione pre-culturale (suoni dell’Iso Universale, come il respiro, gli intervalli di seconda e terza minore, pochi e lenti movimenti intervallari, silenzi, pause…) ed essenzialmente senza parole, fatta esclusione per il nome del paziente, che in questo caso credo possa essere considerata una pura fonazione dai risvolti gestaltici. A queste vocalizzazioni mi sento di aggiungere pertanto anche il canto difonico, per queste qualità:
– – la sonorità “a bordone”, evocatrice di risonanze arcaiche;
– – la qualità timbrica dei suoni armonici, che si avvicina alla linearità del suono sinusoidale e ad altezze – anche nella voce maschile – prossime alle “tonalità elevate” della mamma di cui parla la Trehub;
– – lo svolgersi intervallare della scala degli armonici – I, I, V, I, III, V, VII, I, II, III, IV#, V, vero e proprio archetipo musicale – sul quale sono state costruite gran parte delle scale e delle melodie più antiche di tutti i popoli.
Nel caso del coma, penso che la necessità primaria del musicoterapista sia quella di coinvolgere nel trattamento, quando possibile, i familiari del paziente. Tra questi, penso siano preferibili quelli di lui più anziani, che lo possano aver conosciuto nei periodi pre e neo natale, in modo che riescano a stabilire un contatto sia fisico sia sonoro/vocale che possa inserirsi come sorta di Instant Direct Speech atto a diminuire la sensazione di abbandono. Quando ciò non si renda possibile, penso che il contatto debba essere stabilito dal musicoterapista.
Ho notato come nei familiari e gli amici delle persone in coma prevalga la tendenza a comunicare verbalmente, spesso con frasi di incitamento al risveglio. Rispetto agli studi sino ad ora svolti in materia e all’esperienza personale, mi sembra di poter dire che in questi casi il veicolo verbale appaia raramente come il più appropriato. Anche se l’esperienza quotidiana ci insegna che la comunicazione tra esseri umani si veicoli più che adeguatamente col linguaggio verbale, non credo si possa dire la stessa cosa, ad esempio, rispetto ai bambini in età prelinguistica e con le persone ritardate o con difficoltà fisiche o psichiche che non hanno il linguaggio come principale mezzo di comunicazione, o non lo hanno per nulla. Con queste persone è probabilmente molto più stimolante ed incisiva – per entrambi – una comunicazione non verbale, sia essa di tipo corporeo – gesti, tatto, sguardi etc – sia sonoro-musicale.
CONCLUSIONI
Lontane da qualsiasi pretesa scientifica, le pagine precedenti vorrei fossero soltanto (?) lo stimolo per me e per chi se ne sentirà attratto, a ragionare su mondi che io credevo lontani – musicoterapia e insegnamento del canto difonico – ma che oggi nel mio lavoro si stanno cercando, corteggiando, definendo e che io desidererei fare incontrare e far convolare – perché no? – a giuste “chimiche” nozze.
So che altri professionisti stanno conducendo ricerche simili alla mia, magari in altri campi o con modalità differenti, motivo per cui ogni parola di confronto, da qualsiasi parte arriverà, sarà la benvenuta.
BIBLIOGRAFIA E WEB:
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R. BENENZON, La parte dimenticata della personalità, Roma, Edizioni Borla, 2007;
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http://www.fundacionbenenzon.org
http://www.artecuratrasformazione.net